Missioni Consolata - Novembre 2014
«È colpa dei bianchi» M aria Cristina Manca, antropologa di Medici senza frontiere , racconta la diffidenza e la paura della popolazione, e le difficoltà di spiegare e conquistare la fiducia delle persone: «È stata la prima volta dell’Ebola in Guinea. Una ma- lattia nuova, sconosciuta. È chiaro che, come spesso accade, si cerca una spiegazione: come mai l’Ebola? Come mai oggi, e perché a me? Si cercano i responsabili, e i primi che vengono in mente siamo noi: sono i bianchi che hanno portato l’E- bola, sono i bianchi che - d’accordo con il governo - vogliono eliminare parte delle popolazioni indi- gene, sono i bianchi che usano i corpi degli africani per i trapianti in America, in Europa. E queste idee non vengono nascoste, molte volte ci hanno vie- tato di entrare nei villaggi. D’altra parte, con que- sta infezione, il problema è che, dopo il primo membro della famiglia, si ammalano anche gli al- tri. E allora si chiedono: “Come mai? Noi stavano bene. Si è ammalata una persona, è stata portata nei vostri ospedali, voi siete venuti qui con le tute, avete spruzzato per disinfettare, e dopo una setti- mana c’erano altri ammalati. Voi avete messo qualcosa nello spruzzatore...”. Questi sono i pen- sieri ed è necessario un grande lavoro. D’altra parte è difficile spiegare che dormire, mangiare, avvicinarsi, lavare i panni di una persona malata fa ammalare. Ci sono famiglie che sono state deci- mate, dove sono morte 15 persone. Ripeto: non è facile da spiegare…». tena per 24-25 giorni. Con il team sanitario del di- stretto noi organizzazioni distribuiamo cibo, che però non è mai sufficiente. I prelievi di sangue di persone con sintomi di Ebola vengono portati a Kenema, dove c’è l’unico laboratorio nazionale in grado di testare il virus. Se il risultato è positivo, il paziente viene trasferito in uno dei due centri di trattamento del paese, che non bastano più. È stato programmato un controllo casa per casa in tutta la Sierra Leone per trovare tutti i malati di Ebola, dato che purtroppo si nascondono, e tutte le persone e familiari che sono stati a contatto con loro e che sicuramente verranno contagiati. Qui la foresta è grande ed è facile nascondersi. Per fer- mare questa epidemia l’unica soluzione è trovare le persone malate, isolarle, trattarle e cercare di tenerle in vita. Abbiamo visto che, se si cura pre- cocemente, la sopravvivenza è alta. Usiamo tutti i mezzi possibili per informare la popolazione, per- ché abbia fiducia nel sistema sanitario: non è fa- cile ma è la nostra sfida. Un sistema che ora è al collasso e che, dopo l’Ebola, bisognerà riorganiz- zare completamente. Questa nuova emergenza ha portato ancora povertà, morte e disperazione. I nostri colleghi africani hanno paura che ce ne an- diamo. Ogni giorno ci cercano, se non ci vedono mandano messaggi, telefonano, chiedono dove siamo. Per loro siamo una speranza ed è per que- sto che teniamo duro: rimaniamo nonostante il ri- schio reale». Costruire il presente e il futuro Oltre alla difficile diagnosi, alla modalità di diffu- sione, alla mortalità alta, al rischio per il perso- nale sanitario in paesi dove la situazione assisten- ziale di base è già assai precaria, si aggiunge un altro punto critico di questa infezione: la man- canza di una terapia specifica. Al momento non vi sono infatti vaccini disponibili (anche se sono allo NOVEMBRE 2014 MC 41 fettive finché il sangue e le secrezioni contengono il virus, che può rimanere per un certo periodo anche dopo la guarigione 14 . In questa epidemia è stato alto il prezzo pagato da chi lavora per curare gli ammalati. Infatti, proprio la modalità di tra- smissione dell’infezione espone a un alto rischio il personale sanitario, anche a causa dei sintomi che all’inizio sono poco specifici (la conferma di infe- zione da Ebola è possibile solo tramite esami di la- boratorio). Al 7 settembre erano 144 gli operatori sanitari deceduti in Guinea, Liberia e Sierra Leone su 301 casi di contagio 15 . E questo in paesi dove vi è una scarsità di base di personale sanita- rio, sia medico che infermieristico: già prima della morte degli operatori sanitari, vi erano soltanto 90 medici in Liberia e 136 in Sierra Leone, paesi che ne avrebbero bisogno rispettivamente per circa dieci e venti volte di più. E in Guinea la si- tuazione è solo lievemente migliore, con 1.000 me- dici per più di 11 milioni di persone 16 . Clara Frasson, di Medici con l’Africa-Cuamm , al- l’ospedale di Pujehun in Sierra Leone per un pro- getto di aiuto a mamme e bambini, descrive la de- vastazione di un paese in ginocchio: «A causa del- l’epidemia, il sistema sanitario, messo in piedi con grandi sforzi, è in crisi. Le mamme non fanno più le visite prenatali, non portano i bambini a vacci- nare; le gravide riprendono a partorire in casa senza assistenza; i malnutriti non vanno più ai centri dove potrebbero essere nutriti corretta- mente, curati e salvati. Questa emergenza è para- gonabile alla guerra. L’economia del paese è allo stremo, il commercio è interrotto, le compagnie aeree non fanno più scalo a Freetown. Molte zone del paese sono chiuse e la popolazione non può più muoversi liberamente. Il cibo comincia a scarseg- giare, non è ancora la stagione del raccolto e pur- troppo le persone stanno usando le scorte alimen- tari destinate alla vendita o alle sementi. Tutte le persone (familiari, amici, ecc.) che hanno avuto contatto con un malato vengono poste in quaran- Continua a pag. 44. DOSSIER MC EBOLA
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