Missioni Consolata - Luglio 2014
LUGLIO 2014 MC 81 Questo fece migliorare la vita delle carcerate? Pensa che qualcuno arrivò a dire che nel 1838, quando le suore andarono ad abitare nel carcere, questo assomi- gliava più a un convento che a un penitenziario. Subito dopo ci rendemmo conto di un’altra piaga sociale, quella delle ragazze madri, o come si diceva in quel tempo, delle «fanciulle traviate». Anche con loro iniziaste un percorso di riscatto al- ternativo a quelle che erano le regole vigenti? Ottenni dal governo un edificio (il Rifugio) che ristruttu- rammo per creare una casa aperta a tutte le ex carcerate e alle ragazze madri, offrendo loro la possibilità di un la- voro che le aiutasse a reinserirsi nella società. Il lavoro non solo garantiva il loro sostentamento, ma con quello che riuscivano a risparmiare, potevano accumulare una piccola dote da ritirare al momento di lasciare il rifugio. Oltre il lavoro ci furono altri aspetti positivi legati al vostro particolare modo di vivere? Alcune di queste donne, avendo fatto un cammino di conversione, e saldato i conti con la giustizia, matura- rono l’idea di consacrarsi attraverso una vita di lavoro e di preghiera. Nacque l’idea di una nuova congregazione detta delle «Maddalene» (oggi «Figlie di Gesù Buon Pa- store»), approvata dell’Arcivescovo di Torino nel 1833 e dalla Santa Sede nel 1846. Oltre al lavoro con le detenute, il tuo campo di atti- vità abbracciava anche altri ambiti specifici? Mi occupai di lanciare in Italia gli asili d’infanzia (pro- mossi in Francia dalla marchesa Pastoret), dove oltre a provvedere cibo e vestiario, cercavamo di insegnare ai bambini i primi rudimenti della scuola e del catechismo. Fondammo anche delle scuole professionali e si diede inizio alla costruzione della chiesa di Santa Giulia nel po- polare quartiere di Vanchiglia a Torino. Juliette, pur essendo una nobile e un’aristocratica, la tua esistenza fu dedicata interamente ai poveri. Io e il mio sposo Carlo, riversammo tutte le nostre atten- zioni e il nostro affetto sulle persone povere e svantag- giate, e questo diede un senso pieno e vero alle nostre esistenze, perché come dice il Signore: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere». Juliette Colbert, marchesa di Barolo, si spense il 19 gen- naio del 1864. Il marito era morto nel 1838. La loro azione in favore dei poveri fece da apripista ai Santi so- ciali piemontesi del XIX secolo, con cui era in relazione, soprattutto S. Giuseppe Cafasso e Don Bosco. Figlia del suo tempo e appartenente alla classe aristocratica, non venne presa molto in considerazione dalla storiografia del Risorgimento. Il tempo però sta facendo giustizia di questo oblio ridandoci la vera identità di Giulia Colbert: una giovane bella, ricca, dotata di mille risorse che aveva tutto per godersi la vita e invece con il marito si mise al servizio dei poveri. Dopo la sua morte venne co- stituita l’Opera Pia Barolo, alla quale lasciò l’intero pa- trimonio di famiglia. Complessivamente dedicò alle sue opere di beneficenza circa 12 milioni di lire, una somma pari al bilancio di uno stato del tempo. Il 21 gennaio 1991 la diocesi di Torino ha avviato la causa di beatifica- zione dei due coniugi. Don Mario Bandera, Missio Novara Nella capitale sabauda invece conosceste altra gente che vi aiutò nel realizzare le opere di carità che avevate programmato. Casa nostra era frequentata da molti nobili e intellettuali piemontesi, tra cui ricordo con piacere soprattutto Silvio Pellico, che accogliemmo sotto il nostro tetto dopo la dura esperienza del carcere allo Spielberg. Questi, pur avendo un’idea della società condizionata dalla classe di appartenenza, erano desiderosi sia di risolvere il pro- blema dell’assistenza agli emarginati che di propugnare riforme politiche e sociali, secondo gli ideali del Risorgi- mento, che portassero all’unità d’Italia, in quel tempo frazionata e divisa. Queste aspirazioni ti coinvolgevano da vicino? Proprio così. Però la cosa che mi interessava di più non era la politica, bensì la situazione sociale, in quanto ve- devo molte persone che vivevano nella massima povertà e indigenza. Io non volevo fare qualcosa per i poveri, ma con i poveri. Perché per noi aristocratici offrire un po’ di denaro o di risorse materiali è fin troppo facile, mentre invece dare la responsabilità ai poveri affinché imparino a gestire la propria vita è molto più impegnativo e ri- chiede un amore vero e sincero verso di loro. Quando iniziarono le tue attività? Nel 1815 mi iscrissi alla Compagnia della Misericordia de- dicandomi alla distribuzione di viveri per i detenuti di To- rino. Qualche anno dopo ebbi il permesso di entrare nelle carceri dove il contatto diretto, specialmente con le detenute, provocò in me uno shock terribile. Vedere quelle donne, per lo più provenienti dalle fasce sociali più emarginate, dietro le sbarre in condizioni disumane, alimentò nei loro confronti un forte desiderio di conso- larle e affrancarle da quella situazione. Come si svolgeva il tuo apostolato in mezzo a que- ste donne che agli occhi della società del tempo erano viste come persone non recuperabili? Mi convinsi che oltre a operare su un piano materiale, do- vevo lavorare sull’aspetto morale. Mi fermavo a conver- sare a lungo con ognuna di loro, ed esse compresero che ero loro amica. Lasciavo anche intravedere che il mio modo di vivere era caratterizzato dalla fede cristiana. In questo modo cercavo di gettare un seme di speranza nella loro vita. Certo, continuavano a essere delle recluse, ma si andavano creando le condizioni affinché all’interno del carcere ci fosse un clima più tollerabile. Questo tuo modo di agire ebbe dei riflessi anche in altri ambienti carcerari a Torino? La mia azione fra le detenute suscitò interesse in alcuni membri della casa reale. Grazie a loro ottenni di poter riunire tutte le detenute torinesi in un unico edificio, dove potei realizzare i miei progetti. Spiegati meglio. Innanzi tutto cominciai a separare le donne che erano in- quisite da quelle che erano già state condannate. Poi, con il coinvolgimento di tutte loro, si stese un regola- mento di disciplina. Stabilimmo dei compiti quotidiani in cui tutte erano coinvolte, dalle pulizie delle camerate ai bagni, alla cucina ecc. Non ultimo, promossi una paziente opera di alfabetizzazione che coinvolse quasi tutte. Il ri- sultato più grande fu di sostituire le guardie con delle suore (le «Suore di S. Anna», fondate col marito nel 1834), che io e il mio amato sposo promuovemmo pro- prio per venire incontro a queste situazioni. MC RUBRICHE
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