Missioni Consolata - Aprile 2014
16 MC APRILE 2014 Padre Giovanni, puoi dirci qualcosa di te? «Sono stato ordinato sacerdote diocesano il 29 giugno 1950 nel duomo di Torino dal cardinal Fos- sati insieme ad altri ventidue compagni. Oggi siamo rimasti in cinque, gli altri sono in paradiso che pregano per noi. In seminario ho sempre preso parte ai circoli missionari. Dopo l’ordinazione, com’era consuetudine per i preti giovani, sono andato a stare nel Convitto della Consolata. È stato in quel periodo che mi sono de- ciso, e il 16 luglio 1951, con altri due preti, uno di Mondovì che è poi diventato vescovo in Colom- bia, mons. Cuniberti, e padre Franco Cravero, originario di To- rino, siamo andati alla Certosa di Pesio (Cn) per fare il noviziato dai missionari della Consolata. Il 16 luglio 1952 abbiamo fatto i voti, e quel giorno padre Cravero e io abbiamo ricevuto la lettera con la destinazione: Tanganika (l’attuale Tanzania). Il 9 dicembre 1952 siamo partiti. In treno fino a Ve- nezia, poi in motonave per 14 giorni fino a Dar es Salaam. Sbar- cati la vigilia di Natale, abbiamo proseguito via terra per Tosama- ganga, a 500 km. Qui abbiamo co- minciato la missione». Quindi tosamaganga, che è la missione in cui tutt’ora lavori, è stata la tua prima destina- zione? «No. Appena arrivato lì, sono par- tito per la missione di Malangali, Itengule, a 150 km a Sud, per tre mesi. Poi un padre della missione di Ujewa si è ammalato, e sono andato lì a sostituirlo: era la Pa- squa del 1953. Per visitare i vil- laggi inizialmente andavo a piedi, poi in bicicletta. La zona di Ujewa appartiene alla tribù dei Wa- sangu. Si trova a un’altitudine di mille metri, ma fa molto caldo, a differenza della zona di Tosama- ganga, che è a 1500 metri. La zona del Tanganika del Sud dove ho trascorso tutta la mia vita mis- sionaria si chiama Southern Mainland Province, la zona degli altipiani del Sud, in cui clima e agricoltura sono molto buoni. Ciò che viene coltivato lì serve anche per le altre regioni che sono più secche. Alla fine del 1953 il vescovo mi ha chiesto di andare a insegnare in vide dietro le sue palpebre, scal- pitanti dietro le sue labbra, an- siose di lasciarsi conoscere. Forse per questo padre Giovanni tende ad aggirare le nostre domande per seguire un suo filo. Il suo rac- conto è irrefrenabile, con un suo formulario ben definito, un suo percorso sicuro, affinato da una probabile consuetudine a pro- porlo e riproporlo con il mede- simo intreccio narrativo. La storia in questo modo assume una di- mensione quasi epica, che viene suffragata dal volto solcato da rughe profonde, dagli occhi con- sumati e brillanti allo stesso tempo, da una gestualità insolita- mente contenuta per un italiano. Quello che padre Giovanni Giorda ci trasmette è l’espe- rienza di un Dio che accompagna il suo popolo, i poveri, gli amma- lati, i giovani della Tanzania, nel susseguirsi dei decenni, delle sto- rie personali e famigliari, comuni- tarie e nazionali. tanzania
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