Missioni Consolata - Marzo 2014
Cooperando… 78 MC MARZO 2014 zione, il programma Mission ha sol- lecitato il pubblico a gesti di carità ma ha ridotto l’impegno a un buoni- smo sterile che serve solo a supe- rare il nostro senso di colpa. Non è stato capace, invece, di invitare i te- lespettatori a un impegno di pace, a individuare le cause e le complicità che protraggono questi conflitti». Così ha commentato la Federazione della stampa missionaria italiana di cui MC fa parte. Che fare? Resta da capire la parte più impor- tante: perché questa scelta di comu- nicazione? Il sospetto è che questo genere di messaggi ed eventi sia preferito, semplicemente, perché è il più rapido ed efficace per la rac- colta fondi. Esso infatti non richiede un grande lavoro di analisi dei con- testi, e nemmeno uno sforzo di tra- duzione di quelle analisi in un lin- guaggio adatto ai non addetti ai la- vori capace di descrivere, spiegare e coinvolgere senza banalizzare. sommato positivo. Ma se lo scopo era invece creare consapevolezza nel pubblico, i grandi eventi hanno fallito miseramente. Il continuo ricorso a termini, immagini e ricostruzioni emotivamente coinvolgenti ma ap- prossimative e semplicistiche spinge a dubitare che anche solo uno dei fruitori di queste iniziative sia oggi davvero più informato. Sarebbe stato necessario mettere in evidenza nel programma televisivo quali sono gli interessi e i fattori economici, politici e geostrategici che scatenano con- flitti e causano l’esodo in massa di milioni di profughi. «L’assenza di un’analisi di questo tipo (sulle cause, ndr. ) non ha af- fatto aiutato i telespettatori a capire come le guerre nei vari paesi toccati dal reality show facciano guada- gnare i commercianti di armi, chi le produce, le banche che si prestano alle transazioni della compravendita di armi e i paesi interessati a tener vivo questo business». «Senza questa essenziale informa- La sfida non è quella di raggiungere milioni di persone. La vera sfida è raccontare storie comprensibili. Coinvolgenti perché più simili alle loro di quanto non si pensi, o perché riguardano problemi che oggi non appartengono più a una parte sola del globo, ma a tutti, seppure in mi- sura diversa da un paese all’altro. Vengono in mente provocazioni come quella del « meme » recente- mente apparso su Internet, un’im- magine di un panorama africano ac- compagnato dalla scritta: «Ogni ses- santa secondi, in Africa, è passato un minuto», in evidente polemica con il modo in cui spesso vengono esposti i dati sulla mortalità e sulle malattie nel sud del mondo (i vari «Ogni sessanta secondi in Africa la malaria uccide un bambino» e si- mili). Oppure ancora lo spassosis- simo video realizzato dal Fondo per l’assistenza internazionale degli stu- denti e accademici norvegesi in cui un paffuto bambino africano che fa da protagonista per uno spot dal ti- tolo «Salviamo l’Africa!» consola una giovane donna europea dalle la- crime facili e discute con il regista dello spot che lo esorta a rispettare il copione. «Dobbiamo creare impe- gno costruito sulla conoscenza, non sugli stereotipi», recita la didascalia del video. Forse, a trent’anni dal Live Aid e considerando i risultati fin qui otte- nuti dalla spettacolarizzazione della comunicazione sullo sviluppo, gli operatori della solidarietà interna- zionale, che in definitiva sono quasi sempre gli attori a cui Vip, media e pubblico in generale devono appog- giarsi per raggiungere le realtà di crisi, dovrebbero concentrarsi su strumenti e messaggi più simili a questi nel ripensare le loro strategie di comunicazione. Chiara Giovetti © zipmeme © www.huffingtonpost.it/
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