Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2014

quell’equilibrio che dotava l’allievo di una maggiore se- renità. Va poi segnalata una perdita di autorevolezza della figura paterna che manca o risulta poco incisiva, provocando disturbi comportamentali difficilmente ge- stibili. Per quanto riguarda la didattica si avverte in- vece un peggioramento nella comprensione del testo e un impoverimento lessicale dei bambini. Rispetto a qualche anno fa, hanno più difficoltà nell’introiettare le esperienze e nell’esternarle, arricchendo i propri rac- conti. Sono più irriverenti di un tempo ma anche crea- tivamente spontanei e con un grande senso della com- plicità e della giustizia». Disturbi dell’attenzione e della comprensione vanno si- curamente ricercati nella gestione del tempo-scuola. Ritmi aziendalisti e non a misura di bambino. Per gli alunni, immersi in questo proliferare di «rumore», dove rimane il tempo per il dialogo e per l’arricchimento della persona? La psicoterapeuta Rosa Napolitano, specializzata in psicoterapia familiare e sistemica e socia dell’associa- zione torinese «Il Melo», ha una sua opinione in merito: «La capacità di espressione orale dei bambini passa at- traverso l’alfabetizzazione delle emozioni. I bambini di oggi non conoscono e non sanno rapportarsi con i tempi vuoti della loro esistenza. Alfabetizzarli alle emo- zioni, promuovendo percorsi laboratoriali nelle scuole, favorisce il loro dialogo con sé stessi e con gli altri. Co- involgere il bambino nella lettura della sua emotività, significa farlo uscire dal racconto sterile su “quante cose si sono fatte” e introdurlo nella sfera del suo io, fondamentale perché si conosce e sappia instaurare un rapporto dialogico più autentico e profondo con il mondo circostante». Scuola e società: l’insegnante di oggi è un perdente? Per raccontare la scuola occorre averne fatta espe- rienza, contestualizzata, introiettata, vissuta da prota- gonisti e non solo da spettatori. KarimMetref, educa- tore, scrittore e giornalista di origine algerina, ha inse- gnato educazione artistica in una piccola comunità ru- rale dell’Algeria e ha successivamente sperimentato, come formatore, la nostra scuola. Gli chiediamo uno spaccato su questi due mondi. «Ho insegnato in Algeria per circa 10 anni, dal 1989 alla fine degli anni ’90. In quell’epoca il maestro era abili- tato quasi interamente all’educazione del figlio; la fami- glia poneva una fiducia completa in quella missione che non riguardava solo la trasmissione del sapere ma an- che la capacità di stare al mondo e di destreggiarsi abilmente nelle relazioni e in società. Quando sono ar- rivato in Italia, tramite i movimenti per la pace, mi sono specializzato come educatore e animatore inter- culturale nelle scuole. Sotto l’accezione di “educazione alla pace” si situano molti insegnamenti che vanno dal lavoro sull’ascolto, di se stessi e degli altri intorno a noi, alle attività che educano a un atteggiamento più coope- rativo e non competitivo, di dialogo e non di scontro. In questa veste sono entrato nelle scuole italiane e ho avuto modo di osservare una realtà complessa che ri- specchia lo status della nostra società. Se, nelle zone rurali dell’Algeria, il rapporto con le famiglie era dele- gante e rispettoso al tempo stesso, qui si è assistito via via a uno scivolamento dei ruoli e una presa di posi- zione delle famiglie nei confronti della scuola. Se il mo- dello riproposto dai media è quello dell’uomo vincente in quanto “abbiente”, è ovvio che l’insegnante non può © Gabriella Mancini

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