Missioni Consolata - Dicembre 2013
penale, pensa al carcere. Non perché il carcere sia una risposta più realistica. I media, che hanno un ruolo importantissimo sulla giustizia, purtroppo la banalizzano: ad esempio fanno pensare che quando una persona va in carcere è tutto risolto, mentre in quel momento si aprono un’infinità di problemi. Biso- gnerebbe fare un lavoro di formazione dei giornalisti. Ad esempio si sentono chiedere alle vittime: “È di- sposto a perdonare?”. Io penso che una domanda del genere sia inopportuna. Così come: “È soddisfatto dell’ergastolo?”. Ma come fa la vittima, con il suo bi- sogno di sentire la propria dignità reintegrata, a es- sere soddisfatta dalla sofferenza imposta al colpe- vole? Se c’è una soddisfazione, è momentanea. Poi ri- mane il vuoto che si aggiunge a un altro vuoto». CI MANCANO PROFETI Ci sono esperienze di paesi che abbiano dei tratti in comune con quella del Sudafrica? «Il Sudafrica ha aperto una via perché è stata la prima esperienza a mettersi in mezzo ai due modelli: quello del colpo di spugna con le amnistie, e quello dei processi penali da Norimberga in giù. Altri paesi hanno tentato di fare delle cose simili: in Perù con la Commissione verità e riconciliazione del 2000, ad esempio. In Ruanda con i tribunali Gacaca per il ge- nocidio del 1994. Il punto è che nessun’altra espe- rienza è riuscita a raggiungere il livello di quella su- dafricana che è stata particolarissima per una serie di situazioni convergenti. Il Sudafrica ha cambiato la Costituzione alla luce dell’idea di Ubuntu (“Io sono perché noi siamo”), ha prodotto un diritto nuovo. C’è stato un ruolo della Corte Suprema che credo sia l’u- nico tribunale del mondo ad avere come logo un al- bero sotto al quale ci sono persone bianche e nere in- trecciate, invece della bilancia con la spada… E poi i sudafricani avevano Mandela e Tutu, cioè due vit- time esemplari. Mandela diceva: “Non bisogna vendi- carsi”, e Tutu: “Le persone possono cambiare, e noi dobbiamo crederlo”. Erano dei pulpiti da cui non ve- nivano delle prediche, ma delle esperienze che ave- vano una forza di testimonianza pazzesca. Dove non ci sono figure profetiche così, diventa molto difficile far passare queste idee a livello pratico. Ci vogliono dei profeti. Ed è quello che ci manca oggi. Certamente nel nostro paese». Luca Lorusso mondo, a cominciare dagli Usa, dove però rimane una nicchia. Paesi come la Nuova Zelanda e l’Austra- lia, partendo da modelli riparativi, sono arrivati addi- rittura a ricostruire la giustizia. Anche in Europa ci sono molti paesi che hanno leggi sulla giustizia ripa- rativa o sulla mediazione reo-vittima. Dall’altro lato però la giustizia riparativa è una risco- perta: se andiamo a studiare i modelli di giustizia di certe società tradizionali, constatiamo che dove è ne- cessario tenere unita la comunità esistono forme di giustizia di tipo relazionale, dialogico, compositivo, e non retributivo. Si può supporre che pratiche di giustizia riparativa ci fossero anche in tempi antichi: per esempio forme di giustizia riparativa si trovano nella Sacra Scrit- tura. Nel Nuovo Testamento (amare i propri nemici, porgere l’altra guancia, perdonare settanta volte sette…), ma anche nel Vecchio Testamento (la lite dialogica per ricostruire l’alleanza). Ci sono studi bi- blici stupendi su come, attraverso questo tipo di pra- tica di giustizia, si possa leggere il rapporto di Dio con il popolo di Israele: un continuo richiamare l’al- tro a rispondere del suo tradimento dell’alleanza in un dialogo che è molto forte, anche violento a tratti, ma che ha sempre come obiettivo la ricostruzione della relazione». I casi di Nuova Zelanda e Australia sono isolati o ci sono altri paesi che si stanno orientando alla giusti- zia riparativa? In Italia cosa si fa? «In Italia ci sono buone pratiche che si stanno conso- lidando soprattutto nella giustizia minorile, la giusti- zia riparativa però in generale è molto marginale. La Nuova Zelanda ha ripensato il suo sistema penale usando moltissimo i programmi riparativi con una dimensione comunitaria come i communities circles che coinvolgono la comunità, il vicinato, la famiglia, le famiglie del reo e della vittima. È stata importante la cultura nativa dei Maori. Tra le altre esperienze, quella sudafricana è emble- matica. Io sento la presenza di una traiettoria cultu- rale nel mondo. La giustizia penale non è più ferma sulle risposte punitive tradizionali: è stata scombus- solata, movimentata dall’arrivo del tema della giusti- zia riparativa. E un po’ dappertutto tra i paesi demo- cratici sta cambiando qualcosa». MASS MEDIA E «TOLLERANZA ZERO» Come spiega questa crescita di consenso per la giu- stizia riparativa in un clima globale in cui domina la «tolleranza zero»? «Il consenso globale sulla giustizia riparativa è al li- vello di studiosi, di Nazioni unite, di Consiglio d’Eu- ropa. Quindi la traiettoria positiva c’è, ma in un con- testo generale che va ancora in tutt’altra direzione. È vero, infatti, che chiunque oggi pensi alla giustizia 44 MC DICEMBRE 2013 OSSIER Ci vogliono dei profeti. Ed è quello che ci manca oggi. Certamente nel nostro paese. “ ” © Paolo Moiola
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