Missioni Consolata - Novembre 2013

34 MC NOVEMBRE 2013 Così sta scritto resse. «Dare a Cesare» significa chiamare per nome ogni cosa, secondo verità e rettitudine, senza pregiu- dizi o applicando categorie e sistemi che contrabban- dano la verità. In ognuno di noi c’è un «Cesare» che veglia, pronto a prendere il sopravvento. Gesù rivolge quella frase ai farisei e ai capi del popolo (cf Lc 20,19), cioè ai responsabili della religione, in una parola alla gerarchia ecclesiastica che, contravvenendo alla legge che vietava di riconoscere idoli di divinità (Es 20,4), portava addosso, cioè sempre con sé, l’imma- gine dell’imperatore Tiberio che si fregiava del titolo di Divinità. Le monete coniate dall’imperatore, infatti, portavano la sua effigie con la scritta o epigrafe che nel caso era: «Tiberius Caesar Divi Augisti Filius Au- gustus Pontifex Maximus – Tiberio Cesare Augusto Sommo Sacerdote, Figlio del Divino Augusto », con cui si dichiara la natura divina dell’imperatore. Usare quella moneta, pertanto, dal punto di vista giudaico significava non solo riconoscere l’autorità civile del- l’imperatore romano che pure era un invasore, ma an- che avallare la sua pretesa divinità, ponendolo sullo stesso piano di Dio. La questione è grave perché la Toràh vieta di farsi immagini di Dio, ma perché più energicamente vieta il riconoscimento degli idoli (Es 20,4; Dt 4,16). Se i capi religiosi si contaminano senza problemi con l’idolatria, essi sono responsabili delle conseguenze del loro «cattivo» esempio: essi corrompono il popolo, inducendolo in peccato; per questo devono tornare a «rendere a Dio quello che è di Dio». Gesù non affronta un problema di natura socio-politico, come la separa- zione dei poteri, ma affronta un tema squisitamente teologico che riguarda l’essenza stessa di Dio: chi è Dio per i capi religiosi? Un idolo tra gli idoli o il Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe? Dio geloso! «Non ti prostrerai davanti a loro [gli idoli] e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (Es 2014). È l’invito alla conversione, a riprendere la pro- pria vocazione di servi del «Signore», unico Dio, che ha creato Adamo, ha chiamato Abramo, ha guidato Giacobbe, ha salvato Isacco, ha redento Israele. «Dare a Cesare … dare a Dio» diventa così la discriminante tra autenticità e vacuità della fede. Non si può mettere Cesare sullo stesso piano di Dio e non si può abbas- sare Dio a livello di un capo di stato, come due auto- rità alla pari che si spartiscono i rispettivi ambiti d’in- fluenza. Non è lecito fare confusioni. Purtroppo è tri- ste sentire preti e anche vescovi e cardinali dare della frase di Gesù letture superficiali, senza alcun riferi- mento al testo nel suo contesto. La giustizia di Gesù raggiunge la radice del cuore umano, là dove ciascuno prende coscienza di essere giustificato per grazia. L’esempio di Gesù deve essere illuminante per noi: nella Chiesa l’autorità non ha il privilegio di legiferare su tutto, anche sulle realtà più insignificanti o su questioni che non sono di sua perti- nenza perché anch’essa ha il «limite» che le deriva direttamente dal Signore. La Chiesa, e in essa l’auto- rità, ha una funzione escatologica, deve cioè non dare soluzioni, ma indicare la strada, la mèta da raggiun- gere sapendo che per giungervi vi sono tante strade quante sono le persone. In una parola semplice: nelle questioni che riguardano le «realtà terrestri» il disce- polo di Cristo non può mai parlare in nome di Dio che, invece, è tenuto a testimoniare e a rendere visibile con la coerenza nella verità della propria vita e delle pro- prie scelte. Sul senso di questa autonomia delle realtà terrestri, il concilio ecumenico Vaticano II ha scritto uno dei documenti più belli dell’ultimo secolo: la costituzione pastorale «Gaudium et Spes», oggi poco frequentata da quei cattolici che preferiscono la leggerezza irresponsabile dell’obbedienza passiva alla fatica del discernimento e della ricerca che rende appassionati del mondo, quel mondo che Dio ama così tanto da mandargli il suo Figlio unigenito: «Va- gliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Tes 5,21) e ancora: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). CONCLUSIONE Dichiarandosi incompetente di fronte a una questione di eredità, Gesù dice che i suoi seguaci, sul suo esem- pio, devono avere il senso del limite e non pretendere di avere sempre l’ultima parola su tutto e sempre in nome di Dio. Compito della Chiesa nel mondo è invi- tare uomini e donne a vivere la propria vita come «im- magine e somiglianza» del Creatore, come missione a servizio degli altri, questa volta sì, per conto di Dio, perché tutti partecipino al banchetto della giustizia che è la premessa della pace. «Date a Cesare quello che già appartiene a Cesare» è l’invito a non smarrire l’immagine di Dio che lui stesso ha deposto in noi perché fossimo nel mondo «la sta- tua», il segno, cioè «il sacramento» della sua visibilità e della sua provvidenza, rendendolo credibile attra- verso la credibilità delle nostre scelte e delle nostre azioni. Non è l’invito a separare la politica dalla fede, ma a coniugare l’una e l’altra nella visione finale del Regno di Dio alla luce della Carta costituzionale che per noi sono le «Beatitudini» (cf Lc 6,20-26; Mt 5,1- 12), il «Padre nostro» (cf Lc 11,2-4; Mt 6,9-13) e il «Magnificat» (cf Lc 1,46-55) di Maria. Solo così i cre- denti possono essere «sale della terra e luce del mondo» (cf Mt 5,13.14), camminando in compagnia degli uomini e delle donne del loro tempo, agendo po- liticamente in modo disinteressato protesi a raggiun- gere la perfezione dell’immagine e della somiglianza radicale di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48). [8 – fine] ____________________________________ 1 Nella Liturgia è il vangelo della domenica 18a del tempo ordina- rio dell’anno C. 2 Al tempo di Gesù il patrimonio era indivisibile : doveva restare unito per cui, alla morte del titolare, il responsabile primo della proprietà era il primogenito, mentre agli altri figli era ricono- sciuto l’usufrutto. Con ogni probabilità, la domanda fu rivolta a Gesù da un figlio minore che voleva la sua parte per spenderla a suo piacimento. 3 Sulla parabola lucana che è il «culmen et fons» di tutta la Scrittura, non ci attardiamo oltre, dal momento che proprio su MC l’abbiamo commentata nell’arco di oltre tre anni: cf P. Farinella, Il Padre che fu madre. Una lettura moderna della parabola del Fi- gliol Prodigo , Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2010. 4 Heautontimorùmenos Il punitore di se stesso, I, 1, 25 [165 a.C]. 5 Orìgene parla di «lògos abbreviato» sia nell’incarnazione che nella morte ( Perì Archon I,2,8); Gregorio di Nazianzo di «Lògos condensato» ( Or. in Epiph. [ Oratio in Epiphaniam ] PG 36, 313 B); cf ancora Massimo il Confessore , in Ambigua [ Ambiguorum liber ] 91, 1285 C/1288 A, e Cent. Gnost. [ Centuriae Gnosticae ] 2,37, PG 90, 1141 C); per Francesco di Assisi , cf Regola Bollata (1223), IX, 2 in Fonti 1977, n. 98.

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