Missioni Consolata - Ottobre 2013

che un predicatore sapiente, una persona attenta ai problemi del nostro tempo, un missionario fe- lice della sua vocazione, pur se- vero nella fedeltà ad essa, vis- suta senza leggerezze, né sconti. Ho imparato molto da lui: non Nella prima puntata, la numero «0» del febbraio 2005, che fun- geva da introduzione alla ru- brica, concludevo con queste parole: «Spetta a ciascuno di noi, “oggi”, decidere di essere « dabàr », parola/fatto che resta scritto nella carne dell’umanità. Parola e sigillo di verità». Alla notizia della morte di padre Be- nedetto, queste parole mi torna- rono alla mente e oggi penso di poterle applicare all’intera vita di padre Benedetto per come l’ho conosciuto. L’ho visto l’ul- tima volta il 18 maggio 2013, un mese prima che salpasse per il suo esodo verso la terra pro- messa della Gerusalemme cele- ste. Il volto era scarnificato e si vedevano i segni del compi- mento perché ormai il frutto «Benedetto» aveva raggiunto la sua piena maturità. Nel ritorno a Genova, insieme alla dott.ssa Maria Cristina Pan- tone, si rifletteva sulla sua sere- nità e pacificazione: ci aveva raccontato la sua malattia come se stesse parlando di una so- rella o di una persona cara. Era già immerso nel cuore di Dio e io sono convinto che lo sapesse, ma non voleva dare preoccupa- zioni agli altri. Sono felice di averlo aiutato a trovare la via per il suo lungo soggiorno a Gerusa- lemme, di cui mi fu sempre grato e riconoscente e sono certo che da quel viaggio nella città del destino di Dio e del- l’uomo, egli ritornò con in bocca e nel cuore le parole di Simeone il profeta: «Ora puoi lasciare, Si- gnore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,29-30). Dopo avere servito il Regno di Dio in missione per tutta la sua vita, sostò al pozzo di Giacobbe per bere l’acqua della vita e mangiare il pane di Elia per pre- pararsi all’esodo più importante della sua vita, dopo avere attra- versato il deserto della malattia e della consumazione del corpo con il fuoco dell’immolazione. Il Signore ha visitato il suo cuore e ha voluto consolarlo facendolo «abitare» per sei mesi nella Città santa, quasi una predile- zione prima del rapimento sul carro di fuoco, come il profeta Elia. Sì! Padre Bellesi fu un « dabàr » che in ebraico significa contem- poraneamente «parola» e «fatto/evento». Fu parola perché parlò e scrisse dal pulpito della rivista MC che sentiva come sua creatura e che curava con amore e passione; fu anche fatto/evento perché parlò con la sua vita tra- sparente e il suo comporta- mento che non contraddisse mai ITALIA solo a usare il computer o a scri- vere articoli, ma soprattutto a servire la missione con compe- tenza, serietà e gusto di fare le cose bene. Lui ci è riuscito e ce ne ha dato l’esempio. Giacomo Mazzotti H o conosciuto padre Bene- detto Bellesi nel mese di novembre del 2004. Al mio rientro da Gerusalemme, Paolo Moiola mi contattò per chie- dermi se fossi interessato a col- laborare con la rivista. Mi mise in contatto con il direttore, padre Benedetto Bellesi, il quale fu contento di avere una rubrica specificamente «biblica». Deci- demmo di cominciare con il nu- mero di febbraio dell’anno 2005. Il titolo della rubrica «Così sta scritto» fu suggerito da Paolo Moiola e fu accettato sia da me che da padre Benedetto, il quale mi lasciò piena libertà di parola e di scrittura. UN «DABAR» DEL NOSTRO TEMPO di Paolo Farinella, prete

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