Missioni Consolata - Luglio 2013
ché era riuscito a coinvolgerci nella sua avventura. Era soddi- sfatto del suo lavoro, si assentava spesso per missioni sul campo, durante le quali eravamo al- quanto in apprensione. I Khmer Rossi pattugliavano le periferie e le campagne, non era molto si- curo andare in giro. Ma era il suo lavoro. A Phnom Penh c’era il co- prifuoco la sera, ma di giorno gi- ravamo tranquillamente. Una delle cose che mi «eccitavano» di più erano le vacanze al mare. Partivamo in convoglio con di- verse Land Rover di Msf insieme ai colleghi del mio babbo. Vivevo quei momenti quasi come un film. Ogni due settimane anda- vamo a messa nella comunità cattolica francese, ed è lì che feci la mia prima comunione. Ci venne a trovare anche mia nonna paterna. Fu in quell’occasione che mio padre organizzò un viag- gio in macchina, in un altro paese, il Vietnam. Ero ignaro di quello che sarebbe successo poi. Quel paese pochi anni dopo sa- rebbe diventato la mia, la nostra casa. E lo è tuttora. Ma torniamo alla Cambogia. Un bel periodo dicevo, sì. Poi però, nel luglio 1997, scoppiò un colpo di stato 2 . A OSLO E QUEL GIORNO SENZA STAMPA Quella mattina mio padre non c’era, era fuori città, doveva tor- nare in aereo ma non lo facevano atterrare. L’aeroporto era sotto assedio, e in città c’era la guerri- glia. Ero a casa con mia mamma e mio fratello e sentivamo le bombe esplodere, i carri armati sparare, i proiettili volare. Uno scenario surreale, quello che sembrava essere un film era 28 MC LUGLIO 2013 ITALIA sapevo ancora. Allora lo vedevo come un viaggio in un nuovo po- sto, una vacanza prolungata. D’altronde avevo solo 9 anni. Ini- ziai a seguire dei corsi di lingua, là avrei frequentato la scuola francese. La sera a casa mio pa- dre mi interrogava, dovevo prepa- rarmi al meglio. Ricordo ancora il giorno della partenza. Un convo- glio di amici e parenti ci accom- pagnò in aeroporto a Falconara. E prendemmo il volo verso un nuovo mondo, una nuova vita. Il primo impatto non fu affatto fa- cile: caldo torrido, zanzare, sca- rafaggi, strade dissestate, spaz- zatura ovunque, tanta povertà… In Cambogia erano ancora pre- senti i Khmer Rossi di Pol Pot, quindi la situazione non era delle più rosee. Ci trovavamo a Phnom Penh, la capitale, e inizialmente abitavamo nella casa famiglia di Msf. Non fu facile, lo ripeto. Ma posso dire, dopo diversi anni, che la mia vita quell’anno cambiò. Mio padre mi fece scoprire la po- vertà, quella vera, le condizioni nelle quali vivono troppi bambini. Sembrano cose scontate, risa- pute, ma credo che non possano essere capite se non vissute. Superato l’impatto iniziale fu tutta un’altra cosa. Dopo alcuni giorni di preparativi era arrivato il mo- mento del colloquio con il preside della scuola francese. Mi ero pre- parato minuziosamente il di- scorso con mio padre, quindi ero pronto. Entrammo nella scuola: palaz- zone giallo in stile coloniale, campi da calcetto in terra, palme… poi l’ufficio. Il cuore mi batteva a mille, mio padre cer- cava di tranquillizzarmi senza successo (mica poteva far tutto!). Una volta dentro, il preside mi sa- lutò e chiese come mi chiamassi. Silenzio. Quanti anni hai? Silen- zio. Al terzo silenzio intervenne mio padre. Fu una tragedia. Una vergogna. Uscimmo entrambi sconvolti dalla mia debacle . Era- vamo increduli. Ma fu solo un epi- sodio, poi mi integrai alla perfe- zione e dopo un mese parlavo francese meglio del mio babbo! Tutto andava bene, la scuola, mi ero fatto i primi amici stranieri, mia mamma faceva volontariato in un orfanatrofio che ogni tanto visitavamo, mio fratello imparava il khmer, e babbo era felice. Per- realtà. Ma in quel momento l’u- nico mio pensiero era rivedere mio padre: l’aereo riuscì ad atter- rare e per fortuna tornò a casa. Ci rifugiammo tutti in un’abitazione vicina, insieme ai suoi colleghi che oramai erano diventati una grande famiglia, la grande famiglia di Me- dici senza frontiere. I primi giorni di attacchi e bombardamenti sem- bravano infiniti, le mura trema- vano, si sentivano le urla di paura e disperazione della popolazione, le tv trasmettevano le immagini della città. Strade nelle quali cam- minavamo tutti i giorni ricoperte di sangue e cadaveri. Uno spetta- colo macabro. Io non capivo, per- ché stava succedendo? E proba- bilmente, anzi sicuramente non mi rendevo nemmeno conto della gravità della situazione. Un giorno addirittura chiesi a mio padre di tornare nella nostra casa per prendere dei giochi che avevo di- menticato. Un suo collega mi rim- proverò: «Cosa ti salta in mente? Vuoi che tuo padre si becchi un proiettile in testa per un gioco?». Ci rimasi male, ma mi aiutò a ren- dermi conto che non si trattava di un divertimento. Dopo qualche giorno i combattimenti finirono, mio padre e i suoi colleghi anda- vano in giro per soccorrere even- tuali feriti. Dopodiché ci evacua- rono a Bangkok mentre la situa- zione tornava alla normalità. Qualcuno potrebbe pensare: «Ma
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