Missioni Consolata - Aprile 2013
80 MC APRILE 2013 mentre Sepúlveda sosteneva che essi non avevano la stessa dignità degli europei. La disputa si tenne a Val- ladolid e durò diversi mesi senza esclusione di colpi da una parte e dall’altra, ma alla fine la spuntai e quella che era la dottrina tradizionale della Chiesa, del pieno rispetto e piena dignità di ogni uomo, schiavo, pagano o cristiano che fosse, alla fine trionfò. Le idee di Sepúlveda vennero condannate e gli scritti proibiti; ma il confronto ebbe il merito di sollevare il problema dell’evangelizzazione dei nuovi popoli. Qual era il punto più spinoso con cui bisognava fare i conti? Il punto più controverso era quello di stabilire se era giusto usare la forza per evangelizzare i nativi oppure - come sostenevo io - se bisognava rispettare la loro coscienza e procedere nell’annuncio del Vangelo nel pieno rispetto della dignità della persona. Il tuo compito era concluso in terra di Spagna? Direi di sì. La Corona promulgò degli editti in cui era fatto divieto ai conquistadores di maltrattare e obbli- gare gli indios ai loro voleri. Purtroppo tali leggi fu- rono largamente disattese! E il prezzo di questa mio- pia la pagate ancora oggi. Le tue mosse successive quali furono? Con questa vittoria, teologica per un verso e morale per un altro, feci ritorno nel Nuovo Mondo, dopo es- sere stato consacrato vescovo, con ben quaranta mis- sionari, anche loro decisi a procedere con l’evangeliz- zazione nel rispetto più totale delle persone. Come ti accolsero al tuo ritorno? Gli spagnoli, in virtù dell’opera di convincimento a fa- vore degli indigeni che avevo fatto presso la Corona, mi ricevettero con freddezza e ostilità. Il governatore non fu molto tenero nei miei confronti: fedele al prin- cipio « promoveatur ut amoveatur », mi assegnò una diocesi nel territorio di Ciudad Real, in una zona del sud-est messicano, denominata Chiapas (oggi San Cristóbal de Las Casas). E come operasti nella nuova sede in Chiapas? Come vescovo mi adoperai subito per visitare tutti i villaggi e feci in modo che i nativi della zona fossero trattati con umanità e rispetto. Nei sinodi che si tene- vano in quel tempo cercai di portare avanti ciò che mi stava più a cuore: il rispetto verso quelle creature il cui destino era stato particolarmente ingrato. Sei rimasto in America fino alla fine dei tuoi giorni? Dopo alcuni decenni di apostolato in terra messicana, ammalato, vecchio e stanco, ma con l’indomabile ar- dore di sempre, feci ritorno in Spagna dove completai la scrittura di diverse opere, sempre in difesa degli in- dios, la più famosa delle quali è: Brevissimo rapporto sulla distruzione delle Indie . E in Spagna conclusi la mia vita terrena, conservando fino all’ultimo nel cuore l’affetto e il rispetto sconfinato per i miei indios ame- ricani. Don Mario Bandera Direttore Missio Novara Santo Domingo, Puertorico, Messico, mettendomi al servizio dei nativi e allo stesso tempo cercando di convincere i nuovi arrivati a trattare questi esseri umani nello stesso modo in cui trattavano i loro simili. Ma il mio modo di fare e quello dei miei confratelli cozzava contro la sete di conquista e di potere che avevano gli avventurieri, approdati nel nuovo mondo al solo scopo di far fortuna e arricchirsi. Di fronte all’insensibilità dei tuoi compatrioti quale linea di azione hai seguito? Nell’ottobre 1515, insieme a fra’ Antonio de Montesi- nos, decidemmo di ritornare in Spagna per informare la Corona sulle ingiustizie commesse contro gli indi- geni e sulle sofferenze che essi pativano. Foste ricevuti dal re? Certamente. Lo ponemmo al corrente di quello che succedeva nelle sue colonie nel nuovo mondo. Im- pressionato da quanto gli esponevamo, ci fissò una seconda udienza, purtroppo il re morì qualche mese dopo. Tutto rischiava di finire in una bolla di sapone. Come vi siete comportati allora? Decidemmo di andare nelle Fiandre per parlare col principe Carlo, diventato l’imperatore Carlo V. Prima però incontrammo a Madrid i cardinali Francisco Jiménez de Cisneros e Adriaan Florenszoon Boeyens, il futuro papa Adriano VI, e li mettemmo al corrente sulla realtà creatasi nelle colonie. L’imperatore emanò uno scritto in cui ordinava di applicare agli in- digeni gli stessi atteggiamenti riservati agli spagnoli. Il cardinal Cisneros mi nominò addirittura «protettore degli indios» e inviò una delegazione per verificare la situazione. Dopo tali delibere tornai in America. E che trovasti al tuo ritorno? Purtroppo la delegazione, venuta a controllare le con- dizioni degli indigeni, si lasciò abbindolare dai conqui- stadores e ne assunsero le posizioni: giudicarono gli indigeni persone di poco conto, da trattare poco me- glio degli animali. Indignato, tornai in Spagna per informare l’imperatore di come gli spagnoli trattavano i nativi. Purtroppo anche in Spagna stava attecchendo l’idea assurda che gli indigeni fossero esseri inferiori agli uomini bianchi. Non ci posso credere! Figurati, che un intellettuale del tempo, tale Juan Gi- nes de Sepúlveda, sosteneva l’inferiorità degli indios e la necessità di sottometterli per evangelizzarli. Egli definiva i nativi americani non come uomini ma come « humuncoli », cioè esseri di razza inferiore. Tuttavia, i pensatori domenicani in Europa e nelle Americhe, l’U- niversità di Salamanca non erano d’accordo e soste- nevano che i nativi americani fossero uomini come noi, con tutti i nostri stessi diritti. Di fronte a tali idee, che rischiavano di com- promettere tutto il lavoro che portavate avanti, non rimanesti con le mani in mano. Carlo V volle che la controversia fosse discussa a li- vello accademico tra Sepúlveda e il sottoscritto. Io so- stenevo che gli indios americani fossero uguali a noi, 4 chiacchiere con...
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