Missioni Consolata - Aprile 2013

# In queste pagine: nella «zona industriale» della prigione i detenuti hanno la possibilità di lavorare e imparare nuovi mestieri. Qui vediamo la sartoria, la fale- gnameria e la produzione di oggetti di artigianato locale. MC ARTICOLI molti è luogo di speranza e re- denzione. Come lo fu nel 1957 per Dedan Kimathi, un capo mili- tare dei Mau Mau, impiccato pro- prio in quella prigione dagli In- glesi: la sua non fu una morte da disperato. L’incontro con p. Ni- cola Marino, un missionario della Consolata che visitava re- golarmente i prigionieri Mau Mau, gli cambiò la vita e Kimathi morì completamente riconciliato con Dio e con gli uomini, «come un santo», scrisse il cappellano che l’accompagnò all’esecu- zione. Nella prigione c’è una cappella interconfessionale in pietra, 200 posti a sedere, costruita dagli In- glesi nel 1954. È ancora perfet- tamente conservata e funzio- nante: la sua croce di legno, i banchi tradizionali e le nude pa- reti di pietra a vista offrono un ri- fugio spirituale a molte anime tribolate. La usano credenti delle più svariate denominazioni, e anche i cattolici, che sono circa un sesto dell’intera popolazione carceraria. La comunità cattolica è molto organizzata, con un bel gruppo di catechisti che seguono i detenuti nei vari blocchi, con un cappel- lano ufficiale delle varie prigioni del paese, che visita periodica- mente anche Kamiti, e diversi volontari esterni che collaborano stabilmente. Tra questi le suore missionarie della Consolata che sul terreno della prigione, ma appena fuori dalle mura, hanno costruito il Centro Cafasso, per aiutare i pochi che hanno la gra- zia di uscire da quella bolgia a reinserirsi nella vita quotidiana. E p. Eugenio Ferrari che da sem- pre ha una passione particolare per i prigionieri, da buon missio- nario della Consolata e «proni- pote» di s. Giuseppe Cafasso, protettore dei detenuti. Con lui e i ragazzi della rivista The Seed (Il Seme) entriamo a scoprire dove sboccia la speranza. GODITI LA LIBERTÀ INTANTO CHE PUOI Niente mi aveva preparato alla mia prima visita a Kamiti, la pri- gione di massima sicurezza. Un massiccio cancello di legno rinforzato da sbarre di ferro marca l’ingresso alla prigione. Dopo dieci passi c’è un secondo cancello tutto di ferro. Ovunque vedi guardie armate mazzi di chiavi incredibilmente grandi ap- pesi al collo. Accolti dal capo catechista, Geoffrey Kamau, e dai suoi aiu- tanti, siamo subito introdotti al- l’ufficiale di servizio. Ci control- lano da capo a piedi nel caso portassimo merce illegale. Men- tre il pesante cancello metallico si chiude dietro di noi, ho la sen- sazione che qualcosa mi sfugga, ma non riesco a focalizzare cosa. Dentro la struttura la mia atten- zione è subito attirata dalle mura alte almeno cinque metri e co- stellate dalle torrette delle sen- tinelle armate. Nel cortile gruppi di detenuti ci guardano stupiti, mentre si annoiano nella matti- nata che non finisce mai. Ci dirigiamo verso l’infermeria. Un’altra porta di ferro si apre e chiude per noi, e lì, proprio di fronte a noi, vediamo un gruppo di carcerati che canta allegra- mente le lodi del Signore. Non me l’aspettavo. Come si può es- sere allegri a Kamiti? Mi dicono subito che si stanno preparando per la messa. Incontro Thomas N. che è qui da diciassette anni ed è convinto di APRILE 2013 MC 63

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