Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2013
DIO È «PESANTE» La «Gloria» che egli manifesta a Cana è solo un altro «principio» che si compirà alla fine del suo percorso, sulla croce, dove l’impotenza di Dio diventerà il fonda- mento della salvezza universale, quando Dio rinuncia per sempre a dare «spettacolo» a buon prezzo, scen- dendo dalla croce, per essere per sempre «uomo tra gli uomini», umano tra gli umani con la fatica di sop- portare il limite, la ricerca e la morte. La «Gloria» che comincia a manifestarsi a Cana si compirà a Gerusa- lemme, cuore della fede e dell’alleanza di Israele che è il tempio della Città Santa. In ebraico «Gloria» si dice « kabòd » (in greco dòxa ) e l’idea originaria di fondo è «il peso», cioè la consi- stenza, la stabilità. Una persona è «gloriosa» se ha «peso», cioè se ha un essere consistente e solido; per questo l’orientale ama il «grasso»: la persona grassa è più pesante e ha più consistenza e quindi è più «glo- riosa». La persona mingherlina è senza valore perché non ha «peso/essere», o quanto meno ne ha poco. Gesù a Cana manifesta per la prima volta il suo «peso», cioè fa intravvedere la sua profonda persona- lità, che è solida e stabile perché suscita la reazione dei discepoli, che a loro volta si mettono in moto per- ché «cominciarono a credere». La Gloria del Dio dell’alleanza nuova non può non ma- nifestarsi sulla croce, quando l’ora di Gesù segna il tempo di Dio, perché «bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26). Mosè visse per poter vedere la Gloria del Dio del Sinai: «Mostrami la tua gloria» (Es 33,18), ma do- vette accontentarsi di sentire Dio di striscio, anzi per «intuizione» perché non era ancora arrivata «l’ora della croce» che è la sola che segna la Shekinàh nuova di Dio in mezzo all’umanità: « 19 Rispose: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te... 20 Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. 21 Aggiunse il Signore: “… 22 quando passerà la mia glo- ria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23 Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può ve- dere”» (Es 33,19-23). Da Cana alla Croce, il desiderio di Mosè è compiuto perché, nel suo abitare in mezzo a noi, il Lògos si rende sperimentabile e palpabile (1Gv 1,1-4) e si offre alla nostra contemplazione: «...e noi abbiamo con- templato la sua gloria, gloria come del Figlio unige- nito che viene dal Padre, pieno della grazia della ve- rità» (Gv 1,14). In altre parole, Cana è «il principio», cioè il punto fondamentale e iniziale della nuova rive- lazione, che non si sostituisce a quella del Sinai, ma la riprende per portarla a compimento (Mt 5,17). Si potrebbe dire che Cana è la chiave di lettura di tutto il vangelo e senza Cana non si può comprendere quello che segue. Tutte le parole, i discorsi, le azioni di Gesù riportate dal IV vangelo devono essere lette alla luce di quanto avviene a Cana dove Gesù apre la cantina del monte Sinai che custodisce il vino messia- nico e lo distribuisce a quanti sono disponibili per la purificazione e ricevere la nuova Toràh che non è più una coppia di pietre scritte, ma la persona stessa del Figlio che abolisce la distanza che impediva a Mosè di vedere la Gloria. Ora chiunque può vedere la Gloria e misurarne la consistenza e il peso, basta che «cominci a credere», cioè si apra all’incontro che segna «il principio» del- l’alleanza nuova per dare inizio a un nuovo esodo che porterà non tanto a una terra da possedere, ma al Calvario, a un Dio che offre la sua vita come «principio e fondamento» del nuovo tempio di Dio: l’umanità stessa di Dio e di ogni creatura. IL «SEGNO» NON È UN MIRACOLO Abbiamo tante volte fatto riferimento al termine «se- gno», distinguendolo dal termine «miracolo» per evi- tare confusioni. Oggi, nonostante siamo nel terzo mil- lennio, indugiamo facilmente al miracolistico, spesso banalizzando anche il comportamento di Dio che vi- viamo come proiezione del nostro agire. Per la nostra cultura, «miracolo» è qualcosa che avviene contro o almeno superando le leggi di natura e quando non ab- biamo risposte immediate a situazioni o eventi, di- ciamo con superficialità «è un miracolo», per dire di cosa inattesa, improvvisa, impossibile. Non solo, usiamo il «miracolo» e lo esigiamo come «prova». Per la beatificazione o la santificazione di qualcuno, si chiede «un miracolo» come prova che Dio è dalla sua parte. Se vogliamo entrare nella mente dell’autore del vangelo, dimentichiamo questo modo di ragionare «ragionieristico» che appartiene alla reli- gione dell’efficienza e siamo disponibili a entrare nel mondo della fede che non chiede prove o miracoli da mostrare, ma cerca il Volto da contemplare. L’autore del IV vangelo usa il termine « s ē mèion » che vuol dire «segno», dove ricorre 17 volte: 8 volte nel racconto dell’evangelista che narra (Gv 2,11.23; 4,54; 6,2.14; 12,18.37: 20,30), 7 volte lo usano i Giudei per giustificarsi nella loro incredulità verso Gesù (Gv 2,18; 3,2; 6,30; 7,31; 9,16; 10,41; 11,47) e 2 volte soltanto lo usa Gesù (Gv 4,48; 6,26). Se osserviamo bene, escluso uno (Gv 20,30), tutte le altre 16 volte il termine è utiliz- zato solo ed esclusivamente nella prima parte del vangelo, quella che appunto viene chiamata e distinta come «Vangelo dei segni», mentre la seconda parte è detta «Vangelo dell’ora». La prima parte del vangelo è propedeutica, è introduttiva alla seconda e ci aiuta a penetrare il momento drammatico della «morte di Dio», che paradossalmente diventa la vita degli uo- mini: è un atto creativo del nuovo Adam ed Eva che è il Regno di Dio, la Chiesa, la nuova Umanità. Il «segno» non è un miracolo, tanto meno un gesto con cui si vuole dimostrare qualcosa. Se Giovanni avesse voluto parlare di dimostrazione avrebbe usato un altro vocabolario, come « dýnamis - potenza» o « tèras - miracolo/prodigio», anche perché in Gv 4,48 è Gesù stesso che rimprovera questo tipo di religiosità: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» e usa i due termini « s ē mêia kài tèrata », distinguendo così le due parole anche da un punto di vista semantico. Il «segno» è un indirizzo, un’indicazione, una dire- zione, un simbolo, una prospettiva, un modo di vedere e di pensare. Esso esige attenzione più che meravi- glia, perché l’attenzione prestata al «segnale» deve condurre eventualmente a scelte di vita. Se il «miracolo» ha l’obiettivo di colpire l’immaginario e lasciare storditi, per cui è indirizzato all’emotività, il «segno», al contrario, si rivolge alla coscienza e alla ragione, cioè al pensiero e quindi alla decisione. IL SEGNO, IL SEGNALE, LA CONTEMPLAZIONE Il «segno di Cana» ci svela l’inganno delle apparenze: quello che sembrava non è e quello che non appariva si manifesta: lo sposo non è il malcapitato del rac- conto che resta senza vino, ma lo «Sposo» è Gesù, GENNAIO-FEBBRAIO 2013 MC 33 MC RUBRICHE
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