Missioni Consolata - Dicembre 2012

DICEMBRE 2012 MC 45 MC NATALE POSSIBILE Sobrietà e solidarietà: due direttrici per uno stile di vita cristiano e un Natale evangelico. «Il campo della solidarietà è amplissimo. Il biologico locale, ad esempio, è solidale perché, se fatto bene, ha dei cicli curati nella produzione, nel trasporto, porta benefici a tutti: non contribuisce a cementificare, a fare strade, a far aumentare i mezzi a motore, e il bi- sogno di combustibili. Se tu usi i terreni che hai qui per produrre il tuo cibo, non è autarchia, chiusura al mondo, è avere un motivo in meno per andare a pren- dere il cibo in altri paesi, lasciando terreni e risorse alle persone del posto. Il biologico però non è buono di per sé: se alla sua base c’è la sola considerazione egoistica del “Mi fa bene perché è più sano” rischia di generare un mercato tutt’altro che solidale che vede ettari di terra in Turchia o in Cina impiegati per col- ture biologiche destinate a noi». IL COMMERCIO EQUO Quando si parla di commercio e di acquisti, quindi, la categoria «solidarietà» richiede un «di più» di consa- pevolezza delle proprie motivazioni e delle storie dei prodotti (e dei produttori con le loro comunità, e i loro territori). Gian Paolo ci aiuta in questa riflessione introducendo alcune note «critiche» sul commercio equo e solidale, e su chi lo promuove. Ci dice, ad esempio, che la logica del mercato e l’odierno periodo di crisi stanno rischiando d’influenzare le scelte degli operatori del commercio equo e solidale. «I progetti “difficili” non si riescono più a vendere. Sono pochi oramai i bottegai che hanno una conoscenza diretta dei produttori del Sud del mondo. Se non conosci di- rettamente sei meno coinvolto, e riesci a coinvolgere meno il cliente. Quando ti trovi con un’ampia scelta di prodotti equi da vendere tendi a spingere su quelli maggiormente vendibili e facili». Poi negli anni si sono sviluppati molti tipi di commer- cio equo: l’equo statunitense, che rappresenta un terzo di tutto il mercato equo del mondo, ha abbas- sato gli standard, e per avere il marchio di garanzia «fair trade» su un prodotto è sufficiente che abbia il 10% d’ingredienti equi. «Questo perché nel circuito del commercio equo è entrata la grande distribuzione organizzata, ad esempio la catena Wall Mart , che ha come fine il profitto. Questi attori hanno accettato le regole sapendo che prima o poi avrebbero avuto in mano il fatturato e che quindi avrebbero potuto ini- ziare a dettarle loro. Questo avviene negli Usa, dove la cultura è mediamente più spregiudicata. In Europa il commercio equo è maggiormente presidiato dalle realtà di base che l’hanno sempre fatto, ma alcune av- visaglie iniziano a esserci anche da noi. Noi di Isola, proprio per questi motivi, siamo sempre stati con- trari alla scelta di collaborare con la grande distribu- zione organizzata». Gian Paolo puntualizza: «Racconto queste cose per- ché il commercio equo è una realtà molto positiva che però non va idealizzata». Poi, spostando il fuoco del discorso dagli «operatori» del commercio equo ai con- sumatori, aggiunge: «È difficile lavorare con progetti che riguardano i più poveri, gli ultimi tra gli ultimi, quelli che non hanno la capacità di produrre il caffè perfetto, la maglia perfetta. In genere ci rapportiamo con clienti a cui basta un prodotto bello, buono, e ma- gari che faccia anche un po’ di bene».

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