Missioni Consolata - Ottobre 2012

Domenica 21 ottobre verrà canonizzata una ragazza indiana: prima pellerossa elevata agli onori degli altari, molto cara alla devozione dei cattolici degli Stati Uniti e del Canada. Con lei abbiamo scambiato quattro chiacchiere per saperne di più sulla sua vita, sul suo popolo e sull’ambiente in cui è vissuta. E cos’era questo senso di diverso che provavi? Mi è difficile rispondere. In mia madre, battezzata nella fede cattolica quando i gesuiti fondarono le mis- sioni nei nostri villaggi, avvertii una novità di vita che si infiltrava nella mia coscienza e che mi afferrava, portandomi a desiderare di vivere quell’amore per cui il Signore aveva dato la sua vita per gli uomini, a vi- verlo in maniera speciale nella mia esistenza. Dato l’ambiente in cui vivevi, che portava alla contemplazione, non ti deve essere stato molto difficile scoprire l’amore di Dio che par- lava attraverso il creato. Pur facendo i lavori quotidiani legati ai miei doveri di ragazza e di donna della famiglia adottiva, trovavo sempre il tempo per andare nella foresta e pregare in Caterina, usiamo il nome italiano perché il tuo: Kateri Tekakwuitha ci suona un po’ ostico nel nostro idioma. Parlaci un po’ della tua vita. Sono nata nel 1656 a Osserneon (ora Auriesville) in quello che ora è lo stato di New York negli Usa. Mio padre era della tribù Mohawk della grande nazione Irochese, mentre mia madre era della tribù degli Al- gonchini. Mia mamma era cristiana; mio padre invece seguiva la religione tradizionale dei nostri avi. Sono cresciuta quindi in un ambiente dove la natura era ri- gogliosa e suggestiva e dove solo ammirando il cielo e guardandomi intorno sentivo palpitare in me la bel- lezza del creato e di ciò che di grande e immenso mi veniva dato ogni giorno da contemplare. La tua vita, come per molti indiani del Nord America, era imperniata sulle necessità della sopravvivenza che, se non vado errato, era ba- sata soprattutto sulla caccia e sulla pesca. Seguivo la mia gente negli spostamenti nelle foreste alla ricerca di selvaggina, che a quei tempi abbon- dava, e lungo i fiumi ricchi di pesce; ce n’era per tutti. Quando ritornava mio papà dopo aver procurato da mangiare alla nostra famiglia, era una grande festa. Però, questa realtà fu molto breve... Proprio così. A quattro anni un’epidemia di vaiolo (sconosciuto dalle nostre parti e introdotto dai nuovi arrivati) si portò via i miei genitori e il fratellino; io in- vece, pur essendone colpita, superai la malattia, ma venni segnata nel volto da cicatrici devastanti e persi buona parte della vista. Venni adottata da mio zio, che era un capo tribù e quindi mi trovai a vivere in una po- sizione privilegiata tra la mia gente. Immagino che, come figlia adottiva di un capo, al di là delle cicatrici del vaiolo, fossi una delle ragazze più desiderate dai giovani guerrieri? Le proposte non mancavano, ma più che a me punta- vano a entrare nella famiglia del capo. Io però sentivo in me qualcosa di diverso che mi faceva dire di no a ogni proposta di matrimonio. 80 MC OTTOBRE 2012 a cura di Mario Bandera 4 chiacchiere con... MC RUBRICHE 5. KATERI (CATERINA) TEKAKWITHA

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