Missioni Consolata - Ottobre 2012

In altre parole, il racconto di Cana resta «sospeso» perché aspetta la risposta all’interrogativo di fondo: a che punto sono della mia storia della salvezza? Sono seduto al banchetto delle nozze dell’Agnello o sono ancora nel giardino di Eden alla ricerca dell’albero «gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6)? Sono schiavo in Egitto, in attesa dell’irruzione di Dio, nella quale forse non spero più? Sono forse nel deserto a rimpiangere il passato, pre- ferendo la schiavitù alla fatica del cammino verso la libertà? Ho preferito il «dio facile», rappresentato dal vitello d’oro, o il Dio esigente della coscienza sulla cima del monte che consegna le «dieci parole» di re- sponsabilità? Non è affatto scontato che ciascuno di noi sia nel NT, accanto a Gesù Cristo, Messia e ga- rante. No, non è proprio scontato. CHI È GESÙ PER ME? Si può essere papi, vescovi, preti, consacrati, cristiani, studiosi della Bibbia da generazioni e generazioni e si può essere benissimo fuori della stanza nuziale, senza abito della festa (cf Mt 22,10-14), lontani dall’al- leanza e dal Dio dal volto umano manifestato in Gesù di Nàzaret. La domanda cruciale è solo una e non può essere posta in altro modo: «Chi è Gesù per me?». A questa domanda si deve rispondere e non si può ri- mandare; non è neppure sufficiente dare risposte pre- fabbricate, come fanno gli apostoli che riportano le «opinioni» degli altri: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta (cf Mt 16,14) o come fa Pietro stesso che crede di risolvere tutto affidandosi all’attesa messia- nica: «Tu sei il Cristo!» (Mt 16,16). Anche la sua rispo- sta, che poteva venire dallo Spirito, è invece così ge- nerica e imprecisa che Gesù si sente in dovere di snu- dare la superficialità e doppiezza fino a chiamarlo sa- tana: «Satana! Tu sei a me di scandalo» (Mt 16,23). La domanda «Chi è Gesù per me?» impone al lettore di andare oltre il racconto di Cana, di scendere tra le pieghe delle parole che lo descrivono e di immergersi nel cuore dei sentimenti nascosti nel pozzo dello spi- rito. È il momento supremo della coscienza, che non può ingannarsi davanti a un evento che attende solo di essere vissuto: lo Sposo è giunto, le nozze possono cominciare! Si accendano le lampade (cf Mt 25,6). È il momento della verità senza sconto: Gesù è un si- stema di conoscenze catechetiche? Una struttura di dogmi o di etica? Un marcatore di civiltà da contrap- porre ad altre? La chiave di un codice di potere? Lo strumento per esigere privilegi e «valori», magari non negoziabili? Oppure è una Persona che vuole essere incontrata, accolta, amata e frequentata? Se è una Persona, c’è spazio per i sentimenti profondi fino all’innamoramento che fa sì che «quella Per- sona» diventi l’asse portante, il referente, il punto di arrivo e di partenza della vita, delle scelte, degli eventi, della morale, del pensiero, della fede e della speranza: «Il Dio della mia vita» (Sir 23,4)? (35 - continua) Es 19,6; 1Pt 2,9). Essi sono apostati perché rinnegano il Dio del Sinai e danno nome al vitello d’oro chiaman- dolo Cesare, il nome di un imperatore qualsiasi, una caricatura di re, di norma pazzo e assassino: «Rispo- sero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,15) che è il capovolgimento della pro- messa unica e solenne: «Quanto ha detto il Signore, lo faremo e lo ascolteremo » (Es 24,7). È l’apostasia to- tale. Solo in questa prospettiva si può capire l’economia del racconto di Cana come midràsh dell’alleanza del Si- nai: Cana è l’invito, anzi l’appello alla coscienza di Israele ad abbandonare la teoria dei Cesari che hanno dominato la sua vita e il suo cuore per tornare al Dio di Abramo, al Dio di Isacco, al Dio di Giacobbe, al Dio dei Padri (cf Es 3,16), lavandosi e purificandosi non già nell’acqua delle giare che sono vuote e abbandonate, ma nel sangue, cioè nella vita di Dio stesso che non esita a darsi per amore (cf Gv 15,13). Il racconto delle nozze di Cana è un affresco mite e seducente di un Dio prossimo che viene a cercare chi si era smarrito nei patti scellerati con il potere, aderendo a una reli- gione di comodo che fa a meno di Dio, pur servendo- sene peccaminosamente, perché non può vivere senza il guinzaglio del «cesare» di turno. Per questo l’architriclino non ha saputo o potuto rico- noscere il vino bello dell’alleanza sinaitica nuova per- ché non aveva il collirio adatto (cf Ap 3,18) per vedere e contemplare che «lo sposo di quelle nozze (Cana) raffigurava la persona del Signore» (S ANT ’A GOSTINO , In Johannis Evangelium . Tractatus CXXIV 9,2). Abbiamo qui una prova del metodo di Giovanni: il significato materiale delle singole parole o dei personaggi (la fi- gura dello sposo, più allusa che reale) è simbolo di un altro Sposo che solo chi possiede o è posseduto dallo Spirito può cogliere e assaporare (cf 1Cor 2,11). L’APPARENZA, IL SIMBOLO E LA REALTÀ Nelle nozze degli umani, il vino buono si spreca all’ini- zio perché l’obiettivo è fare «bella figura» con gli ospiti e, alla fine, quando tutti sono ubriachi e nes- suno è più in grado di distinguere il vino dall’acqua, si mette in tavola vino scadente; nelle nozze del Regno, al contrario, poiché si guarda all’evento in sé, quando il Messia porterà a compimento la storia e il suo senso, che oggi può apparire confuso e complicato, allora, e solo allora si gusterà il «vino bello» della comprensione di ciò che si è vissuto. Nella prospettiva del Regno non si guarda alla «figura», cioè all’appa- renza, ma si è proiettati verso la dimensione escatolo- gica, «in quel tempo» unico e assoluto, quando con- templeremo la Sposa di Dio, la Gerusalemme del cielo «adorna per il suo Sposo» (Ap 21,2), pronta a ri- scattare il pianto di «Rachele (che) piange i suoi» (Ger 31,15; Mt 2,18), perché ora accoglie l’umanità intera invitata a prendere parte alle «nozze dell’Agnello» (Ap 19,7), sigillo definitivo e supremo dell’alleanza aperta e conclusa nel segno della Parola sul monte Sinai, quando Dio scelse Israele e Israele si consacrò al suo Signore (cf Es 19,8; 24,3.7). Il racconto di Cana s’interrompe in modo brusco, senza conclusione, restando in sospeso, perché ogni lettore sia costretto a fermare il suo pensiero e a im- maginare ciò che non è scritto, perché lo riguarda di- rettamente: qual è il mio posto di lettore in questo racconto? Quale personaggio descrive il mio stato d’animo, la condizione della mia fede, il mio «dove» nel cammino della mia ricerca? 34 MC OTOBRE 2012 Così sta scritto 1 - L’espressione «uscire/tornare - yatsà’-bò’ » di Nm 27,17 è tipica- mente ebraica: si indicano gli estremi di un’azione per contenerla tutta (cf «cielo e terra» di Gen 1,1 e «monti e valli» di Is 40,4; cf Lc 3,4; 42,15; Sal 104/103,8, ecc.), essa descrive la cura totale, completa e radicale con cui il pastore deve governare. 2 - In Mt 1,21 è l’angelo a imporre a Giuseppe (in Lc 1,31 a Maria) il nome «Gesù» da dare al bambino che ancora deve nascere e ne spiega anche l’etimologia: «E tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».

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