Missioni Consolata - Giugno 2012
all’estero si compone anche di altre realtà altrettanto valide: dai progetti di Ipsia, ong delle Acli, a quelli di enti locali, su tutti il Comune di Torino; il bacino di scelte al quale una ragazza o un ragazzo possono at- tingere è ampio. ANDATA... Ma come funziona il loro «reclutamento»? Un ra- gazzo dai 18 ai 28 anni può fare domanda per il servi- zio civile, estero compreso, almeno una volta al- l’anno, in occasione del bando dell’Unsc (Ufficio na- zionale servizio civile). La procedura è semplice: en- tra in contatto con l’ente referente del progetto e in- via la propria candidatura. Il colloquio è garantito, il posto ovviamente no, soprattutto se il numero delle domande dei candidati è molto superiore alle richie- ste pervenute dai vari enti. Dal 2001 al 2005 questo rischio non c’è stato, e a grandi linee quasi tutti potevano partire. Poi con il passaparola e soprattutto i racconti dei primi Caschi bianchi, si è arrivati a un boom di richieste che conti- nua ancora oggi, quando viene selezionata circa una persona su tre, ovvero, su una media di 500 posti, ar- rivano agli enti 1.500 domande. «Io sono stato ripe- scato per Santiago del Cile, dove sono arrivato nel di- cembre 2006: era la prima volta che lasciavo l’Italia per così tanto tempo - spiega Federico Pinnisi, oggi 31enne e ritornato nella sua città d’origine, Novara -. Dopo la selezione, abbiamo avuto una formazione di quasi due mesi, per prepararci a quello che avremmo trovato all’estero». È questa la differenza con un’esperienza di volonta- riato canonica: chi parte per il Servizio civile ha un bagaglio formativo alle spalle che gli consente di reg- gere l’urto iniziale dell’arrivo in un luogo diverso dalla quotidianità di casa propria e, nello stesso tempo, gli permette da subito di agire dando concre- tezza al proprio mandato. Nei 45-60 giorni di forma- zione normale, si alternano incontri con esperti, la- boratori, esperienze di condivisione diretta in am- bienti e con persone con disagio. Nel caso di Pinnisi, partito come Casco bianco per la Comunità Papa Giovanni XXIII , ha significato alcune settimane in una casa famiglia. «La formazione previa alla partenza garantisce ai giovani quelle competenze di base utili a gestire un conflitto, imparando a interporsi fra le parti in causa - riprende Lapenta -, si tratta di avere la giusta “equivicinanza”, parola che si distingue da “equidistanza”, perché significa porsi vicino a tutte le parti, cogliendone le difficoltà, e facilitare il dialogo senza schierarsi per favorire nessuno». Una volta formato, il giovane ha il giusto tempo per salutare parenti e amici, prima di lasciare l’Italia per almeno dieci mesi. La coscienza che sia una scelta temporanea, molto diversa, ad esempio, dall’impe- gno missionario, è ben presente, ma il distacco è sempre un momento forte, soprattutto a quell’età. «Ho faticato a staccarmi da famiglia e amici, a capire la lingua una volta là, pur avendo studiato prima un po’ di spagnolo, a passare da una città di 100 mila abitanti a una metropoli di 7 milioni di persone… - continua Pinnisi -. Poi in poco tempo sono diventato autonomo, e in qualche modo cercavo di mimetiz- zarmi con i cileni, calandomi nella loro realtà». La sua storia è comune a quasi tutti i ragazzi in servi- GIUGNO 2012 MC 41 Due Caschi bianchi della Ipsia (Istituto pace sviluppo Innovazione Acli) in servizio civile in Argentina. © psia Acli - 2007 zio all’estero. In particolare, lui ha vissuto a stretto contatto con i bambini di strada, lavorando anche in un doposcuola di Santiago (la parola “lavorando” è giusta, il servizio civile prevede un’indennità di circa 850 euro al mese per l’estero, il doppio del nazionale: è per questo che si parla di lavoro volontario, non di puro volontariato) e promuovendo l’obiezione di co- scienza tra i giovani cileni, nel cui paese il servizio militare è ancora obbligatorio. «All’estero ti senti completamente immerso nella realtà in cui vivi, a 360 gradi, perché vivi in condivi- sione diretta con chi ha bisogno: è un’esperienza che lascia il segno» riporta Sara Rovati, appena tornata, dicembre 2011, da una comunità per minori dello Zambia. «Fare il Casco bianco significa, da una parte, spogliarsi di tutto: dalle abitudini ai beni mate- riali, al cibo, alle amicizie, e ripartire da zero in un contesto differente; dall’altra, si entra in luoghi di violenza e si deve cercare di dare una mano a risol- vere i conflitti quotidiani: ci si sente parte di un in- granaggio più grande che diffonde una cultura di pace, partendo dalla condivisione, dal rispetto, dalla multiculturalità», osserva Marco Bianchi, casco bianco in Bolivia nel 2005. Le sue parole colgono in pieno lo spirito di questa particolare forma di servi- zio civile, che con umiltà cerca di entrare in un am- biente nuovo ben sapendo di essere di passaggio. «Noi poi torniamo a casa, ma le persone con cui ab- biamo a che fare restano lì: i protagonisti del cambia- mento non siamo noi ma loro, e noi con loro - speci- fica Pinnisi, approfondendo ulteriormente il ragiona- mento -; vivere il servizio civile all’estero ha voluto dire confrontarmi con le mie paure, i pregiudizi, chie- dermi il senso delle cose, ammettere il senstimento di impotenza a cui noi occidentali siamo poco abi- tuati, presi dalla nostra idea di onnipotenza risolu- trice». MC RISCHIO ESTINZIONE
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