Missioni Consolata - Marzo 2012
MC ARTICOLI entrato in contatto con la realtà indigena grazie alla sua parteci- pazione a un’equipe interpasto- rale di cui ci parla come di un’e- sperienza molto interessante: «Essa è sorta quando la comu- nità era stata sfrattata dalla sua terra e aveva vissuto sulla strada, la nazionale 50, quasi cinquanta giorni con sole, piog- gia, freddo. Allora ci riunimmo, membri delle diverse pastorali diocesane e scegliemmo il tema «terra» come l’asse portante su cui girano la maggior parte dei problemi, costituendo l’equipe interpastorale con la quale hanno iniziato a collaborare an- che persone senza un’identifica- zione cristiana specifica come alcuni avvocati che stanno dando un loro contributo importantis- simo. Questa equipe ha fatto sì che s’intervenisse, non solo su situazioni concrete come i con- flitti fondiari, ma anche sulla sensibilizzazione della società bisognosa di essere messa al corrente della realtà culturale, sociale, giuridica dei popoli indi- geni attraverso alcuni convegni sul tema dell’interculturalità. Il recupero dell’identità indigena è un cammino per gli indigeni stessi che nei decenni passati erano arrivati addirittura a ver- gognarsi di ciò che erano, men- tre il loro specifico culturale, lin- guistico, religioso è una ric- chezza straordinaria che an- drebbe condivisa con tutti: se parliamo, ad esempio, anche cente parte della Seabord Cor- poration , multinazionale Usa. «In questa e nelle altre comunità native accompagnate negli anni di Oran ho potuto ammirare la loro costanza nella fiducia, la loro testarda speranza, di poter arrivare a sperimentare di es- sere figli della terra. Non siamo arrivati a ottenere il titolo comu- nitario, ma è in atto un confronto legale che in questo momento comunque sta garantendo alle comunità una relativa tranquil- lità nella loro terra». Il missiona- rio lucano è visibilmente emo- zionato nel parlare della «sua gente»: «Queste comunità mi hanno dato un esempio di resi- stenza e di fiducia nella giustizia, sempre pacifiche, convinte del loro diritto, però con uno spirito di pace». E ricordando gli ultimi momenti trascorsi a Oran si commuove, interrompendosi, ma senza sentirsi in imbarazzo per quell’affetto che è frutto e strumento della missione: «Quando ci siamo salutati, hanno ricordato tutti i momenti trascorsi insieme, ringrazian- domi e esprimendo il loro affetto per me. Quando si sono espressi così io mi sono sentito piccolo, come un seme che ho cercato di essere per loro e con loro. Vera- mente posso dire di avere, più che dato, imparato e ricevuto». IL «BUEN VIVIR» Padre José a Oran era parroco in un territorio non indigeno, ed è solo della loro vita improntata all’equilibrio con l’ambiente, sa- rebbero veramente dei buoni maestri per molti. Potrei fare ri- ferimento a un sistema di vita che sviluppano soprattutto i po- poli andini, e magari non solo loro, parlando del “vivere bene”, che è molto diverso dal “vivere meglio a scapito di…”. Vivere bene significa vivere in armonia, economicamente, religiosa- mente, culturalmente». Prima di chiudere la nostra con- versazione con il solito e, ormai, atteso abbraccio seguito da un cantilenato Muy bien , chiediamo a padre José se può rivelarci la sua prossima destinazione, ma subito capiamo che ancora non sa dove andrà al suo ritorno in Argentina: «Intanto vorrei ricordare le parole con cui mi hanno salutato le co- munità. Pur soffrendo per la mia partenza da Oran - perché ci siamo veramente voluti bene - mi han detto: “Che tu possa conti- nuare a fare il bene dovunque ti troverai, come lo hai fatto con noi”. Il mio desiderio è quello di tornare a lavorare con i poveri, con gli indigeni, con i criollos che lottano per una vita più degna. Non sono troppo anziano: mi ri- mangono ancora un po’ di forze per potermi spendere in realtà come quelle in cui ho lavorato ne- gli ultimi due decenni, anche se gli acciacchi si faranno sentire, però sento che il Signore mi offre ancora questa possibilità». Luca Lorusso
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