Missioni Consolata - Dicembre 2011

52 MC DICEMBRE 2011 OSSIER INCIDENTI DI MISSIONE Di p. Luigi Olivero da Ihembe da «La Consolata» 2/1915, pp. 26-27 Da una lettera del nostro missionario P. Olivero, ad- detto alla nuova stazione di Ihembe nel distretto di Meru a nord del Kenya, stralciamo questo brano drammatico e impressionante. [Questo è il primo e unico racconto pubblicato sulla nostra rivista circa le nuove missioni del Meru. Il mis- sionario scrive al canonico Allamano dalla prima mis- sione ancora provvisoria, prima del trasferimento a Imenti/Mojwa. Il racconto è abbastanza insignificante in sé, ma contiene descrizioni interessanti della realtà, dei primi contatti con la gente ed è rivelatore dello zelo missionario di quei primi pionieri per i quali dare un battesimo era il massimo risultato possibile .] Permetta, venerato Superiore, che le racconti ora un fatto alquanto tragico capitatomi il 27 luglio [1912?], che viene a confermare sempre più due verità: la prima, che Maria SS. Consolata ha una cura specia- lissima dei suoi figli missionari; la seconda, che Id- dio tutto dispone per il nostro meglio, giacché è pro- prio in questa circostanza che giunsi a tempo per amministrare un battesimo. In compagnia di un neo-catechista mi recavo, per la visita giornaliera, a Soria, luogo di popolazione den- sissima, ad un’ora dalla missione, dove pochi giorni prima avevo lasciato una madre con due bimbi ma- laticci. Speravo che la medicina loro data avesse prodotto qualche buon effetto, e, nel caso contrario e di aggravamento del male, avrei amministrato il santo battesimo. Cammin facendo pensavo appunto al come avrei po- tuto compiere quest’atto, senza dare troppo nell’oc- chio ai circostanti, per non ingenerare prevenzioni nella loro mente così facile a fantasticare, per lo più in male, su ogni nostra azione, e per non sollevare sul nostro conto dicerie ancor più strane e dannose. Da parte sua il neo-catechista che mi camminava a fianco: un giovane sui 20 anni alto e tarchiato della persona, tanto che stonava non poco vicino a me piuttosto mingherlino, mi esprimeva confidenzial- mente il suo timore di ricevere i soliti affronti e rim- proveri dagli indigeni, solo per il fatto che ci indica le strade e le capanne. Questi poveri selvaggi, non co- noscendoci ancor bene, ci classificano generalmente come spioni degli ufficiali del governo inglese. Era uno stretto sentiero quello per cui si camminava, fiancheggiato a destra e a sinistra da una fitta siepe, a guisa di muricciuolo, e corrente in una valletta che è probabilmente l’antico cratere di un vulcano aperto da una parte o dalla lava, o dall’erosione di secolari piogge. Del resto questa regione presenta costantemente il medesimo fenomeno di configura- zione. Vista dall’alto, sembra seminata di tanti mon- ticelli conici dalla cresta rotondeggiante, perfetta- mente tornita e rivestita di fine erbetta, alcuni dei quali presentano al loro fianco una grande squarcia- tura che costituisce appunto una piccola valle. La- scio ai geologi di studiarne le origini e m’accontento di indicare il fatto. Da più di un’ora camminavamo solleciti, quando d’improvviso risuona dalla parte opposta il grido as- sai noto dello mbu , corrispondente al nostro al- larme. È dapprima un grido isolato, che si fa subito più intenso, per diventare poi un formidabile coro di voci alte e concitate, e al grido di mbu si aggiunge quello esplicativo di: Ngiogo! Ngiogo! – l’elefante! l’e- lefante! -. A quelle grida che si facevano sempre più rumorose, a quel nome che mi indicava tutta la gra- vità del pericolo, confesso che il sangue mi si rivoltò nelle vene: m’arrestai, volsi rapido lo sguardo in tutte le direzioni, e non vedendo capanne vicine nelle quali rifugiarmi, affretto col mio compagno il passo, per cercare altrove un qualsiasi riparo. Avevo percorso appena un cento metri, che vediamo le peste fresche fresche del passaggio dell’elefante. Il tre vulcaniche che pavimentano gran parte della regione e a mano preparare assi nella vicina foresta del monte Jombene. Il materiale era pronto: pietra su pietra ce- mentate di fango, asse vicino a asse, fatiche giornaliere iniziate all’alba e terminate solo per l’o- scurità; ma la chiesina venne su bella e massiccia come la monta- gna del Jombene. Nella notte santa del 1914, scrisse p. Aimo, «l’Onnipotente fattosi povero fan- ciullo scende per la prima volta nella povera chiesetta di Tigania». Nel dicembre 1913 pp. Olivero e Domenico Vignoli fondano la nuova missione di Egembe (ora chiamata Amung’enti [ scritto an- che Igembe o Ighembe ]) proprio sul piazzale del ballo degli Nthaka sulla riva destra del fiumicello Mboone e abbracciante due clan. Abbiamo così le prime quattro missioni del Meru, quattro roc- cheforti avanzate proprio nel cuore del paganesimo, che i nostri chiamarono trappe , certo menan- dovi vita da trappista: preghiera, lavoro, visite ai villaggi, soli per la

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