Missioni Consolata - Dicembre 2011
42 MC DICEMBRE 2011 OSSIER mente quando all’inizio dell’evangelizzazione ci fu- rono episodi assai tragici. Gli anziani della tribù erano e sono divisi in tre gra- dini: il primo era costituito dagli Areki (sing. Mwa- reki ) ed era un onore sia per uomini come per donne, essere annoverati in questo rango. Il secondo gradino era formato dagli Njuuri Nceke ed il terzo dagli Njuuri Mpingiri . Gli anziani che formavano gli ultimi due ranghi erano selezionati con cura: meglio dire se- gregati dal resto della tribù. Per poter essere eletti Njuuri , i candidati dovevano pagare una forte tassa, in genere un gran numero di animali da sacrificare e mangiare durante una grande festa. Ciascun Njuuri , e questo continua ancor oggi nelle remote regioni dell’Igembe, aveva la sua particolare maschera dipinta sulla faccia, specialmente durante cerimonie e riti e raduni solenni. Segni distintivi dello Njuuri erano (e sono): il Morai o bastone no- doso ricavato da un ramo di legno nero (in genere ebano); la Ncea o corona di conchiglie sulla testa; il Meu o scopino fatto di peli di coda di animale (si tratta in genere di peli della coda di mucca o anche giraffa) e lo sgabello a tre gambe scolpito da un unico pezzo di tronco. Alcuni Njuuri aggiungono il copri- capo di pelle di scimmia guereza (per esempio gli Njuuri facenti funzione di capi, gli agwe , gli stre- goni…) ed una specie di manto di pelle di montone o anche di scimmia. Quando vi erano questioni gravi da dirimere questi anziani si radunavano in un prato presso Tigania, vi- cino alla foresta d’Uringo, e «sedevano e sedevano sull’erba» (sedere sull’erba è un modo eufemistico per dire: discutere, giudicare; la reiterazione del verbo indica la lunghezza del raduno). Questo prato, tempo addietro, era il più sacro e famoso luogo di convegno degli Njuuri. Vi giungevano da tutte le parti del Meru. A ricordo, negli anni Settanta, venne eretto un santuario a forma di capanna, ma non fu mai più usato come punto d’incontro. Gli Njuuri sono ancor oggi un autorità tribale ricono- sciuta dal governo del Kenya e godono di rispetto in- discusso. Un giovane missionario africano che nel 2008 si permise di pubblicare affermazioni ritenute irrispettose nei loro confronti, dovette essere pronta- mente trasferito in un’altra zona del paese. Parlando degli Njuuri non posso - a questo punto - non ricordare la figura di un nostro missionario, il p. Franco Soldati ribattezzato Mwereria (vagabondo per buona causa) il quale - con il beneplacito del ve- scovo mons. Lorenzo Bessone - fu accettato tra gli Njuuri Ncheke . È curioso il dialogo di Mwereria con il vescovo. «P. Soldati , mi fido di lei: se vede che la faccenda brucia, si tiri subito indietro!». «Monsi- gnore, con l’aiuto di Dio cercherò di non lasciarmi bruciare!» (vedi un profilo di p. Franco in MC 10- 11/2002, pag. 79 ). P. Mwereria ha affidato questa esperienza a un inte- ressante diario in cui descrive quanto ha scoperto degli Njuuri e quanto essi hanno scoperto in lui… cose belle e meno belle, ma soprattutto è riuscito a sfatare quella che i nostri primi missionari avevano definito tout-court «massoneria nera». LA KAGITA, IL TRIBUNALE DEGLI NJUURI La Kagita (tribunale indigeno) aveva potere sopra tutti gli Njuuri e la tribù; era costituita dalla cerchia degli Njuuri più rinomati, il Mogwe (lo sciamano- guaritore e sacerdote-sacrificatore) che descrivo più avanti) e il capo. Si radunava in una capanna particolare detta nyumba ya kagita . Era quella la ca- panna più temuta nella regione. Vi erano giudicati soltanto i casi criminali più gravi contro la comu- nità. E in genere, l’accusato, criminale o meno, una volta giudicato dalla Kagita, pagava con la vita. I giudici dovevano trovare assolutamente un respon- sabile. Il modo di procedere era il seguente: i membri della Kagita insieme al presunto colpevole entravano per la porta principale della capanna. In pompa magna e seduti sullo scranno a tre piedi tabaccando abbon- dantemente, ognuno iniziava a parlare e ripetere o commentare il caso giudiziario. Nel mezzo del cer- chio deglii anziani, accanto all’accusato, vi era una grossa zucca, ripiena di vino di canna. Non tutto il contenuto però era vino; una buona dose di veleno era stata previamente versata nella bevanda. Sic- come il veleno era più pesante del vino, si depositava sul fondo della zucca. La sentenza contro il supposto criminale una volta entrato nella Kagita era sempre quella capitale. Ma doveva essere provata, con la prova del veleno. Il primo degli Njuuri, usando una zucchetta come mestolo, attingeva un po’ di vino, at- tento a non toccare il fondo del contenitore. Beveva dicendo: «Bevo di questo vino e rallegro il mio ven- tre, perché sono innocente…». Seguiva il secondo giudice, il terzo, il quarto e così via fino all’ultimo. Fi- nalmente era la volta del condannato. A lui l’ultimo giudice offriva il vino dopo averlo attinto dal fondo della zucca. «Bevi di questo vino - scandiva - e ve- diamo se anche per te dimostrerà che sei inno- cente!». Il veleno agiva in meno di un quarto d’ora. Il disgraziato, ormai rigido nello spasmo degli ultimi attimi di vita, veniva spinto con dei bastoni fuori
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