Missioni Consolata - Dicembre 2011

38 MC DICEMBRE 2011 OSSIER LO SMARRIMENTO DEI MISSIONARI L’origine di questo popolo di ceppo Bantu è quindi incerta. Certo è invece che i primi missionari della Consolata, conoscendo poco o niente di questa tribù e non avendo accesso ai segreti gelosamente custoditi dagli anziani, trinciarono anche dei giudizi a dir poco pesanti. Cito qui la testimonianza di uno dei nostri primi missionari, che oggi certo sembra alquanto sbrigativa, irrispettosa e anche un po’ raz- zista. Scriveva: «[È un] Popolo senza storia né scritta né orale, senza una civiltà anche solo primitiva. Il popolo Meru, prima dell’arrivo degli inglesi, era di un grado ap- pena superiore agli animali del loro deserto e delle loro foreste: riprodursi, lottare per l’esistenza e per la preda; morire e, come le carcasse animali, esser divorati da altri animali; questo è il compendio senza eccezione della vita di ogni Meru, per cui non si do- veva parlare assolutamente di un livello morale. Stando così le cose, non è a stupire se non hanno una storia, nemmeno orale. La loro origine si perde nella notte dei tempi e dell’oblio, e il loro ricordo non sale oltre la generazione che li ha preceduti. E anche i fatti, i fasti e le gesta dei predecessori che ogni na- zione, con un minimo di civiltà, ha cura di traman- dare ai posteri e che formano l’orgoglio nazionale, nel Meru sono passati e trapassati in modo tale da per- derne persino il ricordo e le tracce». Mons. Filippo Perlo, il primo vescovo di Nyeri sotto la cui giurisdizione era il Meru e che aveva organiz- zato le prime spedizioni dei missionari in quel terri- torio, nel 1922 scrisse: «È strano fino a qual punto questa popolazione difetti di storia, e se fosse vero l’aforismo che felice è quel popolo che non ha storia, questo dovrebbe essere arcifelicissimo. Basti dire che nessun ricordo antecedente alla presente gene- razione vi è conservato in alcun modo: nessun monu- mento storico esiste sotto qualsiasi forma, e invano ricerchereste per tutto il paese, su terra e sottoterra, pur traccia di ruderi, che possano risalire a una de- cina di anni addietro, ché è pur ben poco nella storia. «A spiegare quest’assenza assoluta di quanto ha rela- zione col passato, credo valgano due ragioni l’una morale e materiale l’altra, la prima ha il suo motivo nella superstizione universale dominante, per cui chi è morto, è talmente morto, che neppur il suo nome, per quanto in vita riverito e stimato, può più essere ripetuto, né fuori né tantomeno nella casa e nella stessa famiglia che fu sua. A vedere quant’evitino, non dico di parlare di coloro che furono, ma pur an- che di farne un qualsiasi accenno, sembrerebbe che in realtà evitino persino di pensarvi… «La ragione materiale, a parer mio, starebbe in que- sto: che usando essi costruire ogni lor abitazione con pareti di ramoscelli intrecciati, rinforzati di malta e coperti di tetto di paglia, né all’infuori di questa ca- panna familiare, altre costruzioni esistendo nel Paese: - che gli edifici pubblici per le adunanze e l’amministrazione della giustizia sono suppliti da spiazzati erbosi, o annosi alberi dalla folta chioma -, ne risulta per le lor case una durata effimera quanto il materiale di cui sono formate… cioè al massimo quattro o cinque anni. Quindi è facile arguire che neanche gli atti di valore compiuti dagli eroi nazio- nali, o le successioni nobiliari, o alcuna delle più me- morabili gesta collettive possono perpetuarsi nel ri- cordo di un popolo: non usandosi materiale in alcun monumento che ne conservi la storia, e la tradizione orale rifuggendo per partito preso dall’occuparsi di quelli che passarono, e tanto più di quanto opera- rono. In conclusione se c’è paese in cui si visse lette- ralmente alla giornata era questo, con esclusione as- soluta d’ogni ricordo del passato, d’ogni preoccupa- zione per l’avvenire». UNA CULTURA SENZA PASSATO? Quelle riportate sopra possono sembrare cose di al- tri secoli, ma personalmente - nella missione in cui lavorai come principiante - questa «memoria proi- bita» di quanti erano stati gli antenati poteva ancora trovare riscontri negli atteggiamenti di persone sia totalmente illetterate come di persone istruite, com- presi i maestri. Due o tre esempi. Dovevo compilare le schede dei battezzandi. «Come ti chiami?» « Njogu » (= elefante). Strabuzzai gli occhi. Il catechista fu veloce a spiegarmi che suo fratello era morto da piccolo e suo padre gli aveva messo il nome di un animale grande e potente perché impaurisse lo spirito del male impedendogli di prendere anche que- sto nuovo figlio. Va bene. Scrissi: «Elefante». Arrivò una ragazza. «Il tuo nome?» « Nterietwa » (tra- dotto letteralmente: non ho nome !). Pensai che la battezzanda non avesse ancora scelto il nome cri- stiano da prendere per la funzione ed insistetti. Fu ancora il catechista che mi venne in aiuto: «Vedi pa- dre, questa figlia ha avuto due fratellini prima di lei, morti in tenera età. Allora i suoi genitori le hanno messo il nome Nterietwa proprio per confondere lo spirito che così non troverà più una nuova vittima». Aggiungo a queste due curiosità un’altra di qualche giorno prima, quando chiesi ad un candidato mae-

RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=