Missioni Consolata - Ottobre 2010

C he ne pensa la gente comune del maxicontratto con la Cina? Lo abbiamo chiesto a due congolesi residenti in Ita- lia. Afferma G.M.: «Quando il presidente risponde alle critiche, dice che si tratta di una nuova maniera di fare cooperazione. È diversa? Non si sa. È vero che i cinesi ci sono e le loro opere si vedono già. Qualcosa c'è. Come congolese, se è qual- cosa che può agevolare il movimento della gente, in un paese enorme come il nostro, se può servire a porre le basi per rilan- ciare lo sviluppo, in uno stato senza elettricità, va bene. Se invece non ci sarà nulla di concreto per la gente, l'anno prossimo con le elezioni Kabila dovrà renderne conto. Inoltre, bisogna stare at- tenti perché il male della corruzione esiste e alcuni dirigenti pos- sono approfittarne. Diciamo che ne do una valutazione positiva con riserva: che siano cinesi o occidentali, i soldi sono gli stessi, ma mentre gli occiden- tali dettano condizioni la gente muore; i cinesi invece non pon- gono vincoli, vogliono le materie prime che l'Occidente ha usato per tanti anni fissando i prezzi a suo piacimento. Ora almeno c'è una sorta di scambio tra due stati, anche se non è detto che sia equo. Il problema resta la corruzione: i soldi passano tra le mani dei dirigenti e poi vanno alle società cinesi, ma se i dirigenti con- golesi si intascano qualcosa e danno alle aziende costruttrici meno del dovuto, i cinesi in base al budget costruiscono opere meno durature». Molto più duro il parere di P. M.: «Per tanto tempo siamo stati schiacciati dalla colonizzazione, poi siamo stati servi di Mobutu. Tutti hanno approfittato delle ricchezze del Congo, ora è la volta di cinesi e indiani. Siamo semplicemente passati dalla padella alla brace: prima dipendevamo dagli occidentali, ora dai cinesi. Il paese è stato ipotecato. Non abbiamo autonomia, con la diffe- renza che ora ci sarebbero le menti, i laureati, gente capace che potrebbe rimettere in piedi lo stato. Ma a loro non si danno ap- palti. Ci sono ditte cinesi che vengono per costruire una diga e non l'hanno mai fatto prima. E poi non insegnano il mestiere, fanno tutto loro. Invece di dare le miniere in concessione, dovremmo piuttosto cercare di vendere noi le materie prime: con un prestito acquistare i macchinari, scavare, vendere e col ricavato costruire da soli le infrastrutture di cui abbiamo bisogno. Invece conti- nuiamo a dipendere e nessuno dà nulla per nulla: i cinesi sono ve- nuti per approfittare di noi e quando devi soldi a qualcuno sei le- gato, non c'è nulla da fare. E aggiungo: la gente può avere un'au- tostrada, ma se non ha da mangiare non se ne fa nulla. Lo svi- luppo non è fatto di grattacieli e grandi opere. Inoltre, come sem- pre succede, l'arrivo di gente benestante provoca un rialzo dei prezzi che va a discapito degli autoctoni. Con gli industriali, poi, sono arrivati anche i cinesi poveri, che vivono in catapecchie lungo la strada tra Kinshasa e Matadi e vendono pesce, fagioli o frittelle al mercato: così divengono concorrenziali rispetto alla povera gente che vive di questa economia di sussistenza e gene- rano un malcontento diffuso anche negli strati bassi della popola- zione». G. Ba. LA PAROLA AI CONGOLESI # brata la vecchia Gecamines, la compagnia mineraria statale, ed è stata fondata una joint venture sino-congolese, la Sicomines, in cui il Congo detiene il 32% e l'a- zionista di maggioranza è la Banca centrale cinese. Sono dunque in buona parte ac- cordi di scambio basati sul ba- ratto, proprio per evitare troppa circolazione di denaro (e busta- relle). In secondo luogo, si tratta di contratti pubblico-privati, sti- pulati dallo stato congolese con alcune imprese private cinesi, tra cui in particolare la Crec (China Railway Engeneering Corporation, azienda con 100 mila lavoratori) e la Sinohydro (60 mila dipendenti). Secondo gli impegni, i contratti dovrebbero generare diecimila posti di la- voro, di cui settemila per i con- golesi e tremila per i cinesi (pa- gati allo stesso modo), con pro- grammi di formazione della ma- nodopera autoctona. Così al- meno nelle dichiarazioni d'in- tenti. In sintesi: la Exim Bank cinese presta al Congo i soldi con cui pagare le aziende cinesi che co- struiranno le infrastrutture, così una parte dei soldi usciti rien- trano sotto altra forma al dra- gone, che nel frattempo si è an- che assicurato lo sfruttamento delle enormi risorse minerarie (con l’esclusiva triennale per l’e- strazione di cobalto, rame, ferro), energetiche e pure agri- cole. I cinesi stimano in 120 mi- lioni di ettari i terreni coltivabili (vedi articolo nella terza parte). Uno smacco per l'Occidente, che aveva investito ingenti capitali per sostenere la costosissima macchina elettorale e che certo non si aspettava quello che a molti è parso un voltafaccia. Pa- recchi analisti hanno collegato a queste scelte economiche la ri- presa degli scontri nell'Est del paese a fine 2007, fomentati dai vicini Rwanda e Uganda (notoria- mente appoggiati dagli Stati Uniti). Non a caso, il generale ri- belle Laurent Nkunda, in una delle sue dichiarazioni pubbliche prima di cadere in disgrazia ed essere abbandonato dal Rwanda, chiedeva proprio l'an- OTTOBRE 2010 MC 53 MC ARTICOLI

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