Missioni Consolata - Luglio/Agosto 2010
DOSSIER 34 MC LUGLIO-AGOSTO 2010 to, i detenuti delle carceri e le loro famiglie. Diede l’ultimo conforto a 68 condannati a morte, che affet- tuosamente egli chiamava «santi impiccati». L’attività di predicazio- ne faceva parte di un più vasto pro- gramma di formazione laicale che aveva il suo punto forte nelle «mis- sioni popolari», fatte in lungo e in largo in giro per tutto il Piemonte. Di esse abbiamo abbondanti trac- ce negli scritti del Cafasso. Il programma di formazione dei lai- ci durava in genere 10 giorni e si svolgeva principalmente in par- rocchie rurali. Le zone delle cam- pagne piemontesi godevano fre- quentemente della sua presenza, mente la meditazione. Verso i pec- catori suggeriva di tenere un at- teggiamento improntato alla dol- cezza. Di fatto la spiritualità del Cafasso era figlia di una sensibilità religio- sa che pur collegata alla tradizio- ne tridentina e tardomedievale, riusciva a personalizzare i suoi in- terventi esortativi e omiletici, con- quistando, con un’oratoriaconvin- cente e l’amabilità dei toni, il pub- blico dei suoi uditori appartenenti al clero torinese. Non condivideva i sentimenti allo- ra ricorrenti di carattere gianseni- sta. Il Cafasso invitava infine il sa- cerdote a fare vita ritirata e a dedi- carsi in tutto e per tutto al suo mi- nistero all’insegna di un eroismo quotidiano costantemente attivo e operoso. Il suo ammaestramento era rivolto a molti dei circa 2.000 preti, tanti erano i sacerdoti che esercitavano il loro ministero nel territorio della diocesi torinese nel- la metà dell’Ottocento. La formazione del laicato Come predicatore, confessore e consigliere spirituale il Cafasso ri- volgeva la sua cura d’animeanche verso numerosi laici. In particolare beneficiavano della sua azione pa- storale, come si è più volte ribadi- Sfide e speranza Storie semplici da un carcere di San Paolo S crivere di una realtà come quella che coin- volge donne che vivono in prigione è una grande sfida perché, come loro stesse raccon- tano: «Solo chi lo vive sulla propria pelle sa cosa significa stare in carcere». Dietro ad ogni donna si incontra una storia unica e particolare, fatta di va- rie, complesse situazioni e a misura di ciascuna di esse dovrebbe essere disponibile la migliore pro- posta rieducativa. Purtroppo non è così. Un quadro generale della situazione carceraria in Brasile rivela che la maggior parte di esse sono donne dai 18 ai 30 anni, ragazze madri, donne ve- dove o separate e, nella maggior parte dei casi, afrodiscendenti. Una delle prime impressioni che si ha nell’entrare in un carcere è quella di reclusione e isolamento. Man mano che i vari portoni si aprono e si richiu- dono alle nostre spalle si incontrano e si rivelano volti sempre diversi. Ricordo ancora la prima volta che ebbi l’occasione di visitare una prigione fem- minile e quel volto che tanto mi colpì per la sua serenità e il suo sorriso. Era il viso di Serena, una donna straniera che aveva già trascorso vari anni in prigione e stava ormai compiendo gli ultimi mesi di reclusione. Accolse noi agenti di pastorale carceraria con molto affetto, ringraziandoci di essere andati a vi- sitarle. Dopodiché iniziò a chiamare le sue compa- gne per farle partecipare alle riflessioni e alla cele- brazione che avevamo preparato. Nonostante le molte pressioni e difficoltà che si subiscono in carcere (questa donna, per esempio, non riusciva a mettersi in comunicazione con la famiglia e, per tanto non poteva avere notizie di suo figlio), lei, grazie al suo sorriso, riusciva a infondere forza e coraggio alle sue compagne ogni volta che le ve- deva depresse o in difficoltà. Quindici giorni prima di Pasqua fummo a visi- tarle; Serena aveva preparato per l’occasione una bella tovaglia per l’altare, tutta ricamata a mano. Il sabato successivo, quando tornammo da loro, ci scontrammo con la tragica notizia della sua morte. Fu un momento triste e doloroso. Ci di- menticammo subito di tutte le attività che ave- vamo preparato e lasciammo che le donne potes- sero sfogarsi, condividendo il dolore che prova- vano per la perdita di questa grande persona che le aveva lasciate. Durante quegli anni, Serena si era convertita e per molte compagne era un ap- poggio e una testimonianza di vita. I racconti che le donne furono capaci di esprimere lasciarono emergere il ritratto di una persona davvero unica e speciale. Vennero ricordate tutte le volte in cui Serena si era resa disponibile ad ascoltare, a dare un buon consiglio, a offrire un sorriso, oppure il perdono, con un atteggiamento che era sempre comprensivo verso la debolezza dell’altra. Quello stesso giorno, le sue compagne riuscirono a comprendere, attraverso la testimonianza di Serena, che anche in condizioni estreme è possi- bile vivere la sequela di Cristo, offrendo dalla pro- pria povertà il poco che si ha, per metterlo al ser- vizio dei fratelli. Fu una Pasqua davvero speciale. Offrimmo in dono la tovaglia per l’altare e ringraziammo per i momenti trascorsi con lei. Celebrammo morte e risurrezione in un modo completamente diffe- rente, alla luce della testimonianza di Serena, una donna che aveva commesso un crimine, ma aveva saputo, grazie alla sua conversione, produrre frutti di vita in una situazione di morte. Quel volto mi ha insegnato che in prigione non esiste semplicemente la reclusione, ma anche la scelta di vivere ciò in cui si crede, tra sfide e spe- ranze. Suor Claudia Lancheros Operatrice di pastorale carceraria. BRASILE
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