Missioni Consolata - Maggio/Giugno 2010
DOSSIER 30 MC MAGGIO-GIUGNO 2010 buona questa percezione della realtà; si oppongono a questa pe- ricolosissima semplificazione per- ché la guerra prevede uno stato speciale delle cose, una sospen- sione delle garanzie individuali, una limitazione della democrazia. Siamo arrivati a questo punto, in Messico? E se siamo in guerra, chi sono i contendenti? Chi è contro chi? E lo stato? Dov’è lo stato? Ma soprattutto, chi è lo stato? La gente esce di casa presto, quando è ancora buio, e smette di pensare a quei ragazzi fucilati du- rante una festa. La frontiera è lon- tana, sempre, sia fisicamente – quando la si scorge, all’orizzonte, dalla capitale – sia moralmente, dai nostri recinti quotidiani, quel- li sociali, politici, economici, sem- pre più immaginati, sempre più immaginari. Tutti scacciano dagli occhi, dagli orecchi e dalla mente, l’idea di quei giovani: c’è l’ufficio, c’è la scuola, c’è il traffico, insom- ma, più dell’indignazione, posso- no la fatica di vivere, il lavoro quo- tidiano dell’esistenza, la lotta gior- naliera per portare a casa lo stipendio, sempre più basso, in- sufficiente. Già, perché alla guerra - appa- rente o reale che sia - si aggiunge la crisi, che invece si può toccare con mano e, malgrado l’ottimismo sfacciato delle autorità, esiste dav- vero. Il lavoro è poco, mal pagato e sempre precario. Il miraggio del posto fisso (così come in tutto il mondo) è tramontato da un pezzo, i contratti sono occasionali, i più fortunati firmano contratti della durata di un anno. Spesso si fir- mano, allo stesso tempo, anche le lettere di dimissioni, come se uno accettasse (e di fatto accetta) che tutto può finire domani, che anche l’impiego è effimero, imperscruta- bile, come la vita che, viste le no- tizie di ogni giorno, diventa sem- pre meno importante, sempre me- no sacra. La paura del prossimo e del do- mani si siede vicino alla gente in autobus, in metropolitana, sale in macchina senza chiedere permes- so, entra in ufficio e si accomoda sulla scrivania, accompagna la gente al ristorante, durante la fu- gace pausa per il pranzo. Persino in bagno, entra e non si specchia. Come un minimo denominatore scomodo, questo timore costante accompagna le persone, gli uomi- ni e le donne, che si muovono in- cessantemente – 24 ore su 24 – dal nord al sud della città più grande del mondo, dal deserto della fron- tiera nordamericana fino alla selva che copre la sottile linea che divi- de il Messico dal Guatemala. Recuperare la capacità d’indignarsi Nessuno può dire con certezza come sarà il domani. Il problema della gestione delle risorse – non solo il petrolio, ma anche l’acquae la speranza – si aggiunge a quelli assillanti della sicurezza e del la- voro. Sono soprattutto i giovani a preoccuparsi; gli studenti, nelle università, iniziano a chiedersi sin- ceramente dove vada questo pae- se. Esiste infatti una vera e propria schizofrenia tra il mondo dipinto dal governo di Felipe Calderón e quello vissuto, quotidianamente, dalle persone. Questa differenza così marcata tra la realtà della vita e la finzione della «politica», pro- voca più rassegnazione che ira, ge- nera più preoccupazione che sde- gno. Il tassista che sta tutto il gior- no per la strada, le famiglie che
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