Missioni Consolata - Aprile 2010
DOSSIER 38 MC APRILE 2010 Raccontiamo le nostre storie, più che dare consigli. Gioie e do- lori. Serve anche per creare uno scudo per loro, ma grazie a quel- lo che abbiamo fatto noi». Verso il futuro L’associazione è conosciuta, i servizi sanno che esiste e nei cor- si preparatori della Regione la ci- tano. Però la frequentazione è cambiata negli anni: «Ultimamen- te c’è più gente presuntuosa, o non preparata all’adozione, che vuole prendere e non dare. Ven- gono due o tre volte. Poi spari- scono». A Elio non piacciono molto gli enti autorizzati ( vedi altri artico- li ), almeno quelli privati: «Penso che la cosa più importante da fa- re sia creare enti pubblici che pos- sano collaborare con il governo dei paesi di origine dei bambini, tramite i loro specialisti: assisten- ti sociali, psicologi. Per semplifi- care il tutto, senza passare attra- verso agli enti privati». Elio Biasi è un fiume in piena, trasmette una grande carica uma- na. E pensa al futuro: «Una delle cose che voglio fare adesso che sono in pensione è portare l’ado- zione e l’affidamento nei corsi prematrimoniali. È importante far conoscere alle coppie che, tra le diverse possibilità di avere figli, ci sono anche queste». Ma anche portare avanti le re- lazioni con il tribunale. Far capi- re l’utilità dei gruppi: «Vorrei par- lare loro dei malfunzionamenti, come la disparità di selezione da un servizio sociale all’altro. Qual- cuno fa cose fuori ruolo, metto- no in crisi la coppia, sembra qua- si che debbano martellarli per ve- dere se sono in grado o meno. Ma non sempre è il modo mi- gliore». ■ L a scelta di adottare un bambino non è stata sem- plice e, tanto meno, immediata. È stato un processo lento, a tratti doloroso, che è maturato nel tempo. Abbiamo iniziato a pensare di adottare un bimbo solo dopo dieci anni di matrimonio. E forse l’averci pensato così tardi è uno dei rimpianti maggiori che abbiamo. Spesso ci diciamo che se avessimo iniziato prima, magari oggi invece che un figlio ne avremmo due o forse tre. Ma tant’è. Il destino ha voluto così, e così è stato. In ogni caso nel processo di adozione siamo stati molto fortunati. Abbiamo presentato la domanda di adozione nel marzo 2006 e abbiamo abbracciato il no- stro piccolo il 10 dicembre 2007. Un anno e mezzo è po- chissimo in un processo che, in molti casi, richiede anni e anni di attesa. C ome dicevamo però non è stato un processo indo- lore. Anzi. I colloqui con gli assistenti sociali, i nu- merosi corsi ai quali si deve partecipare obbligato- riamente, i libri che si leggono sono tutti passi che, ogni volta, scavano nella coscienza dei futuri genitori adottivi e vanno giù nel profondo, causando ferite non da poco. Tutto il sistema di verifica delle capacità genitoriali è, di fatto, un processo che ti porta a prendere coscienza del tuo fallimento nella capacità di generare un figlio. E prendere atto di un fallimento non è mai facile. A questo poi si aggiungono le paure di non essere all’altezza di una sfida così importante. Il risultato è uno stato d’ansia che ci ha accompagnato per alcuni mesi, in particolar modo negli ultimi mesi prima di accogliere il piccolo. «Chi sarà il bambino? Quanti anni avrà? Qual è la sua storia?»: sono domande che ti seguono sempre. Che non ti fanno dormire. Ma a fianco di esse c’è anche il deside- rio di diventare papà e mamma. Un desiderio fortissimo che attenua ogni dolore e ti dà la forza per andare avanti. Fino al giorno dell’incontro. P er noi l’incontro è stato quasi improvviso. Il 7 no- vembre l’ente autorizzato al quale ci siamo rivolti ci ha chiamato. Dovevano comunicarci l’abbinamento con un bambino. Sapevamo che il piccolo era vietna- mita, ma non conoscevamo né il nome, né l’età, né da quale provincia del Vietnam provenisse.Vedere la sua foto ci ha riempito di gioia. Il piccolo aveva allora cinque mesi e mezzo, era sano e, soprattutto, non aveva subito traumi psicologici. La comunicazione però non signifi- cava partenza immediata. Abbiamo dovuto aspettare più di un mese prima di imbarcarci per Hanoi. I l viaggioè stato lungoedifficile. I pensieri e ledomande non ci hanno lasciatoneppureunminuto.Manon ab- biamo dovutoaspettaremoltoper avere le risposte. Appena arrivati inalbergo il telefonoè squillato.«Domani mattina fatevi trovare alle 6nellahall dell’albergo.Andiamo aprendere il bimbo»,ci avvisava convoceperentoria il refe- rente localedell’ente.Quellanotte abbiamodormito vera- mente poco.E lamattina infatti eravamo stravolti.Abbiamo ancora le foto che ci siamo fatti faredalla receptionist alle 6 di mattina. Il viaggio da Hanoi a NamDinh è passato velo- cemente. Arrivati al municipio di NamDinh, eravamo come in trance. Facevamo fatica a capire cosa ci stesse ca- pitando. Ci hanno fatto firmare molti documenti. Poi a un certo punto ci siamo voltati ed è entrato il bimbo. Pallidino, spaurito, infagottato in una copertina azzurra. Ci guardava terrorizzato, poi si è messo a piangere. Dopo pochi minuti siamo ripartiti. Ed è cominciato un viaggio che non è ancora terminato. M ARIA E LISABETTA ED E NRICO Maria Elisabetta ed Enrico / Il lungo viaggio Elio Biasi, promotore dei Gruppi vo- lontari per l’affidamento e l’adozione.
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