Missioni Consolata - Aprile 2010
MISSIONI CONSOLATA MC APRILE 2010 33 anni è passata anche attraverso la diffusione di una diversa cul- tura dell’adozione, promossa sia dai servizi sia dagli enti che si occupano di adozioni. L’enorme cambiamento riguarda soprat- tutto la maturazione, da parte delle coppie aspiranti all’ado- zione, di una maggiore consape- volezza delle caratteristiche dei minori in stato di abbandono: sono spesso bimbi in età sco- lare, con difficili storie famigliari alle spalle e con disabilità, ap- partenenti a gruppi di fratelli in adozione. Si è cercato sempre più di far capire la differenza tra il bambino desiderato e il bam- bino reale». Pensa che questa consapevo- lezza sia stata raggiunta? «Le coppie italiane che deside- rano avere un figlio adottivo hanno ben compreso questa realtà. Ci sono coppie che si pre- parano ad accogliere gruppi di fratelli, bambini grandi, a volte con difficoltà sanitarie. Abbiamo accompagnato di- verse famiglie all’adozione di bambini di etnia rom di 8 - 9 anni: sono casi complessi, per nulla facilitati dal dibattito ita- liano su integrazione e intercul- turalità, che rende più difficile l’accoglienza di bambini con dif- ferenze somatiche e il loro inse- rimento nella rete sociale allar- gata. Un altro principio da tener presente è quello per cui le cop- pie italiane non possono realiz- zare adozioni “fai-da-te”, ma de- vono essere accompagnate da enti autorizzati, iscritti in un Albo presso la Commissione per le adozioni internazionali (Cai) della Presidenza del Consiglio dei ministri. Una volta che si ot- tiene il decreto di idoneità all’a- dozione internazionale, rila- sciato dal Tribunale per i mino- renni, bisogna conferire l’incarico a un ente autorizzato, che, tra i vari compiti, annovera anche la preparazione delle cop- pie all’intero percorso adottivo. Nel panorama italiano ci sono circa 70 enti privati e un solo ente pubblico: l’Arai». Ci sono ancora le coppie che vogliono un bimbo «piccolo, subito e sano»? «Dipende molto sia dalla pro- fessionalità dei servizi socio-as- sistenziali e sanitari del territo- rio, sia dalla capacità dell’ente di preparare e accompagnare la coppia: l’accompagnamento è un percorso di crescita e consa- pevolezza. Certi paesi d’origine chiedono alle coppie requisiti particolari e disponibilità specifiche. Se la re- lazione sociale, elaborata dall’é- quipe adozioni del territorio di residenza, riporta che la coppia non se la sente di adottare un bambino di colore o di etnia di- versa, è difficile che quella cop- pia venga accompagnata ad adottare in un paese i cui bam- bini presentano differenze so- matiche evidenti. Noi, però, dob- biamo sostenere le coppie e farle crescere nella loro disponi- bilità e nella consapevolezza che la realtà dei bambini dichiarati adottabili è complessa. Ci sono enti che realizzano adozioni in paesi che presen- tano situazioni giuridiche, so- ciali e politiche in cui è molto difficile lavorare. Ne è un esem- pio il Vietnam, dove, di recente, sono emerse delle irregolarità nello svolgimento delle proce- dure adottive, che hanno por- tato all’arresto di alcuni cittadini vietnamiti incaricati della ge- stione di orfanotrofi collegati al- l’adozione». In alcuni paesi, genitori in stato di indigenza acconsen- tono a «dare» i figli in ado- zione. «Tutto dipende dalla capacità del paese di origine di control- lare le proprie strutture e verifi- care che i bambini siano effetti- vamente in stato di abbandono. Alcuni, per esempio, prevedono che venga firmato un consenso all’adozione da parte della fami- glia di origine; in tal caso è com- pito dei paesi d’origine control- lare che il consenso non sia stato estorto alla madre per pro- blemi di povertà o indigenza. In base alla nostra legislazione, in- fatti, un bambino può essere adottato se ne viene dichiarato lo stato di abbandono e di adot- tabilità. Se si opera in stati dove la po- vertà è tale per cui maggiori sono le difficoltà legate all’otte- nimento dei provvedimenti di abbandono, bisogna lavorare con cautela. Problemi di questo tipo non riguardano general- mente quei paesi dotati di strut- ture giuridiche e amministrative consolidate, come il Brasile e la Russia». In casi di grande povertà il confine tra abbandono e im- possibilità di occuparsi dei figli non è netto. «Sono situazioni difficili da de- cifrare: alcuni bambini sono in abbandono solo a causa della povertà della famiglia d’origine? Fino a che punto la povertà stessa incide sull’incapacità edu- cativa? Una mamma molto povera, che vuole bene al suo bambino e lo vuole tenere, va aiutata; se, al contrario, non dimostra l’amore e l’attenzione necessari ad edu- care il figlio e a crescerlo, biso- gna chiedersi se è più impor- tante la mamma o il futuro del bambino. È pur vero che bisogna avere delle alternative positive da of- frire, come strutture adatte a so- stenere le famiglie e i loro bam- bini e investire risorse nella coo- perazione internazionale, nel so- stegno alla maternità e all’infan- zia. È estremamente importante che tutti, lo stato, le regioni, gli enti locali, gli istituti religiosi, le Sopra: bambino cambogiano. Pagina precedente: piccolo in una struttura etiope.
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