Missioni Consolata - Aprile 2010

DOSSIER 30 MC APRILE 2010 sile, insieme coprono quasi il 60% delle adozioni internazionali nel nostro paese. Questi alcuni dati «freddi» del rapporto annuale della Commis- sione adozioni internazionali (Cai), l’autoritàcentrale per le ado- zioni internazionali. Dati impor- tanti per capire le tendenze italia- ne e dei paesi che forniscono bambini in stato di adottabilità. Dati dietro i quali si nascondo- no migliaia di storie personali e di famiglie. L’adozione internazionale è cambiata radicalmente nel 1998, quando l’Italia ratifica la conven- zione dell’Aja del ’93. La conven- zione, firmata da paesi di origine e di accoglienza, regolamenta l’adozione internazionale e impo- ne nuove modalità e procedure. Percorso ad ostacoli L’iter per diventare genitori adottivi è un percorso ad ostaco- li. Innanzitutto si presenta do- manda al Tribunale dei mino- renni di propria competenza. Si devono quindi affrontare accerta- menti di tipo sanitario e innume- revoli colloqui con l’ équipe ado- zioni del proprio territorio. Que- sta è composta da assistente sociale e psicologo e da essa di- penderà in larga misura l’idoneità o meno della coppia ad accoglie- re un bambino in adozione. Alla fine dei colloqui, l’équipe in- via al Tribunale per i minorenni una relazione che descrive la si- tuazione personale, relazionale e ambientale degli aspiranti genito- ri adottivi. Sarà il giudice, in base a questa relazione a emanare il tanto agognato «decreto di ido- neità» che permette di affrontare il passo successivo. A questo punto la coppia è ob- bligata a scegliere uno degli enti autorizzati , associazioni senza fini di lucro (precisarlo è d’obbligo), che dovrà accompa- gnarla in tutte le fasi successive. «L’adozione è cambiata in me- glio sotto certi punti di vista» rac- conta Elio Biasi, papà adottivo di due figli brasiliani, ora maggio- renni. «Prima ci voleva più tempo per avere il decreto di idoneità e meno per avere l’adozione. Per questa seconda fase c’era più la strada del “fai da te”». Esistevano già degli enti specializzati, alcuni dei quali operano tuttora e sono quelli oggi indicati come «storici». «Ci si muoveva tramite l’aiuto, il passaparola. Con tutti i pericoli che poteva comportare. Anche io ne ho aiutati molti, tramite mis- sionari, in Brasile. Ma erano per- corsi consolidati, di cui eravamo certi», continua Elio che, si può di- re abbia dedicato la sua vita all’a- dozione, in quanto da 28 anni in- veste tempo ed energie in un’as- sociazione di aiuto alle coppie (vedi articolo). «Da quando ci sono gli enti, è più veloce il tribunale, poi ci si are- na. Inoltre, la maggior parte degli enti non ti fanno scegliere il pae- se in cui andare. Ma devi dare la disponibilità multipla. Uno po- trebbe invece avere motivazioni particolari verso un dato paese». E rincara la dose: «Loro (gli enti, ndr ) tendono a spingere i paesi dove hanno più possibilità di riu- scita, hanno referenti più attivi. Agli enti, secondo me, non inte- ressa darti il bambino, ma chiu- dere la pratica il più in fretta pos- sibile, perché comunque porta a casa soldi. Non pensano alle sof- ferenze della coppia, ma al lavoro che devono fare. Si va dai due a tre anni dopo il decreto, per avere il figlio». E come districarsi nella scelta dell’ente? «Oggi c’è molta do- manda. Hanno molte coppie. Qualsiasi ente a cui telefoni per avere informazioni ti fa aspettare 4-5 mesi prima di darti un primo appuntamento. Non si riesce a capire perché si debba aspettare così tanto. In due o tre anni può succedere di tutto. Dopo l’abbinamento (quando la coppia è associata a un bambino in stato di adottabilità, ndr ) aspet- ti ancora alcuni mesi. Loro danno la colpa alle burocrazie dei paesi. Ma io non sono così convinto che non si possano eliminare questi percorsi». Procedure non troppo chiare Gli enti sono tenuti ad avere dei «referenti» nei paesi, ovvero dei loro incaricati che devono sbriga- re le procedure burocratiche, ac- cogliere le coppie quando arriva- no, e accompagnarle in tutti i mo- menti della loro permanenza nel paese. Con il lemma «il fine giustifica i mezzi» molti enti hanno compor- tamenti a dir poco dubbi in alcuni paesi. «L’associazione per la qua- le lavoravo puntava ad ottenere l’adozione il più in fretta possibi- le» racconta una ex referente che ha lavorato per un ente italiano in Africa dell’Ovest. Ma i tempi erano molto lunghi: «Molto spesso ci si rendeva conto che bisognava pagare qualcosa sottobanco per fare andare avan- ti le pratiche. Io non ero d’accor- do con questo metodo, mentre l’ente non aveva problemi. Per lo- ro l’importante era velocizzare il processo». Per questa incompati- bilità, dopo cinque mesi la refe-

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