Missioni Consolata - Aprile 2010
26 MC APRILE 2010 lilea, e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli comin- ciarono a credere a lui ». L’evangelista, infatti, usa il termi- ne «archê» che in Gv 1,1 tutte le Bibbie traducono cor- rettamente con «In principio» e non si capisce perché la stessa parola qui debba essere tradotta con «inizio» dandovi una connotazione temporale, mentre inGv 1,1 deve essere tradotta con «principio» che invece ha una valenza fondativa, cioè di senso profondo. Inoltre la fra- se «i suoi discepoli cedettero in lui» per noi ha un valo- re non compiuto, ma ingressivo perché comincia a svi- lupparsi, lasciando davanti a sé uno spazio per una maggiore maturazione che, secondo noi, avverrà dopo la morte/risurrezione di Gesù con l’opera del Paràcle- to (cf Gv 14,26). La traduzione più consona è dunque: «I suoi discepoli cominciarono a credere a lui», cioè mettono in moto un’attitudine verso Gesù, perché la fe- de non è un atto acquisito una volta per tutte, ma un processo, un cammino, una maturazione. D ALLA NON - FEDE A « COMINCIARONO A CREDERE » Il riferimento alla fede iniziale dei discepoli non è u- na nota folcloristica o ascetica, ma un preciso com- mento teologico che Gv mette in relazione con il «prin- cipio» della fede incipiente dei discepoli. Si crea così un confronto aperto tra esso e Mosè che invece è nella e- sperienza del roveto ardente si mostra uomo «di poca fede», cercando di svignarsela opponendo ostacoli motivati forse dalla paura (Es 3,1-15). Al «segno» ( smêion ) che Dio dà dal roveto, l’arrivo cioè al monte Si- nai (cf Es 3,12), Mosè risponde con una obiezione d’incredulità: mi chiederanno chi mi manda, non si fi- deranno (cf Es 3,13) che diventa certezza di rifiuto, an- zi opposizione dichiarata. A Dio che garantisce «ascol- teranno la tua voce» (Es 3,18), Mosè risponde coinvol- gendo nella sua incredulità coloro che nemmeno co- nosce e attribuendo loro la certezza della non-fede, i- potecando la loro fede. Egli cioè, attribuisce agli as- senti atteggiamenti e sentimenti di cui lui non può di- sporre: «Non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce» (Es 4,1). Mosè non vuole nemmeno «comin- ciare» a credere perché l’obiezione è una scusa per e- simersi dalla sua missione. Qui è il dramma: Mosè e- stende la sua non-fede agli assenti. Alla fine, dopo u- na lunga intervista e contrattazione con Dio (cf Es 3,13-4,1), Mosè accetta il compito di tornare in Egitto a liberare gli schiavi, ma pagherà amaramente, come vedremo, questa sua incredulità. A Cana invece, i discepoli videro la «Gloria» e «co- minciarono a credere», come anche l’atteggiamento della Madre, simbolo del popolo d’Israele credente e in attesa di Dio, che si abbandona con fiducia alla parola del Figlio, nonostante la sua resistenza: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Da una parte l’incredulo Mosè che trascina nell’incredulità anche coloro che dovreb- be liberare e dall’altra la fede senza riserve della Madre- Israele e dei discepoli-Umanità. Vi è la contrapposizio- ne di fede/non fede che nel Prologo viene individuata nel binomio luce/tenebra (cf Gv 1,5.9.11). Dio si era im- pegnato in prima persona con parole che avrebbero dovuto smuovere qualsiasi dubbio: la liberazione degli schiavi d’Egitto è «già avvenuta», è scontata. L’autore, infatti, mette in evidenza che Dio non è ancora inter- venuto e usa i verbi del suo agire al passato [tranne il terzo], come se fossero già conclusi: « Ho osservato la mi- seria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferen- ze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto» (Es 3,8). Anche a Cana è Dio stesso che è convocato alle nozze: «Fu invitato alle nozze anche Gesù» (Gv 2,2) che è una annotazione strana e superflua nel contesto di un matrimonio in Palestina, a cui partecipa tutto il villag- gio con parenti e amici. L’evangelista poteva/doveva o- mettere questa indicazione dell’invito, a meno che non avesse avuto una ragione nascosta per sottolineare la «presenza» di Gesù che non è casuale; come se dicesse che Gesù doveva e voleva andare alle nozze perché in quello scenario di sottofondo avrebbe cominciato a svelare qualcosa della sua personalità e della sua gloria, cioè della sua divinità. - [ continua - 12 ] (1) Endiadi Dal Greco « hèn – una cosa / dià – per mezzo / dyòin – due», endiadi è una figura retorica con cui si esprime un concetto attraverso due o più parole: in questo caso «grazia e verità» sta per «grazia della verità» e riguarda la «rivelazione» nuova, fatta da Gesù. Mosè è legato all’alleanza del Sinai che conduce alla rivelazione definitiva del Lògos in Gesù di Nazaret (su queste questioni e temi cf F. Manns, L’Evangile de Jean , 29-30 e rela- tiva bibliografia; v. inoltre M.-E. Boismard, Moïse ou Jésus, essai de christologie johannique , Leuven 1988, 22-46). (2) Il Confronto tipologico Si chiama «tipo» una figura o un personaggio o un fatto precedente che anticipa una figura o un personaggio o un fatto successivo che invece viene chiamato «antìtipo» dal greco « antìtypon – cosa che accade dopo». Nell’esegesi bi- blica, un fatto del NT è «antìtipo» di un analogo fatto dell’AT o «tipo» che ne aveva dato l’anticipazione profetica: es. Gesù nel sepolcro per tre giorni è «antìtipo» di Giona che resta tre giorni nel ventre della balena e che è quindi il «tipo». L’arca di Noè è il «tipo» del battesimo che è l’«antìtipo» (cf 1Pt 3,20-21). Chiesa di Kalacha, North Horr, Marsabit, Kenya.Murale: Gesù parla alla folla dei discepoli.
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