Missioni Consolata - Aprile 2010
20 APRILE 2010 ISRAELE di muoversi, di lavorare, di vivere li- beramente al suo interno: una sorta di piccola Schengen medio-orienta- le. Questa, credo, sarebbe un’alter- nativa possibile ed idonea alla no- stra situazione. Lo dico perché non penso che la soluzione dei nostri problemi si possa trovare all’interno dei confini di un unico stato; sono tutti problemi regionali (acqua, sicu- rezza, sviluppo, rifugiati), che non possono essere circoscritti al terri- torio israeliano-palestinese. Bisogna guardare a un’unità più vasta, che comprenda anche i paesi arabi più vicini. Questo darebbe inoltre più sviluppo economico all'interno del- la regione. Peccato che, purtroppo, nessuno stia riflettendo e lavorando seriamente a questa idea. Che cosa significa l’uso del bull- dozer in un contesto di guerra? Che messaggio trasmette? Nel contesto del conflitto che stia- mo vivendo, i messaggi che vengo- no trasmessi sono essenzialmente due; il primo è: «Noi siamo al potere e non abbiamo bisogno di voi. Nes- sun discorso di uguaglianza, non siamo soci…questo è il nostro pae- se». Il secondo, conseguenza del pri- mo, è: «Fuori di qui!». Se tu neghi una casa ad una per- sona, è come se gliela negassi anche collettivamente, neghi a questa per- sona il diritto di appartenere a una comunità, il diritto di avere una pa- tria. Questo è il messaggio di fondo che si vuole trasmettere se si demo- lisce la casa di un altro. La politica delle demolizioni portate avanti dal governo israeliano rappresenta in un certo senso la vera essenza del conflitto. Dal 1967 ad oggi Israele ha demolito più di 24 mila abitazioni palestinesi nei territori occupati. Il nostro lavoro per la riconciliazione consiste oggi soprattutto in questo aspetto. Quando noi ricostruiamo case lo facciamo anche in vista del- l’avviamento di un processo di ri- conciliazione…Diciamo che il no- stro lavoro di riconciliazione è oggi politico: consiste nell’essere presen- ti, nell’aiutare, appoggiare,ma sul territorio consiste nel resistere fisi- camente alla demolizione. Resistia- mo, ci incateniamo fisicamente alle case perché non vengano distrutte e per questa ragione veniamo an- che arrestati… Inoltre, raccogliamo dei fondi per ricostruire case che so- no state demolite. È un’azione paci- fica di resistenza, non un atto milita- re. Negli ultimi 10 anni abbiamo ri- costruito 165 case, siamo palestinesi e israeliani, uniti in un atto politico e non-violento di resistenza.Vi sono case che sono state distrutte anche due, tre, volte e noi ogni volta le ri- costruiamo. Forse non si può mate- rialmente parlare di riconciliazione, ma si tratta, comunque, di un tenta- tivo per mantenere viva la solida- rietà, la nostra voglia di vivere e la- vorare insieme. Quando intravedi una soluzione politica dei conflitti allora anche la riconciliazione diven- ta possibile; i palestinesi vedono che vi sono israeliani che hanno voglia di impegnarsi per una pace giusta. Senza questo ponte politico fra le due parti non credo che si possa ar- rivare un giorno a parlare di riconci- liazione. ■ C'è quasi come uno sforzo conscio e deliberato da parte nostra di non vedere, di non vedere e di non sape- re. Così possiamo continuare tran- quillamente a giocare il ruolo di vit- time… Qual è il tuo sogno? Che paese vorresti lasciare nelle mani dei tuoi nipoti? Vorrei che Israele fosse un unico stato democratico, non in un territo- rio con due stati differenti. Questo è il sogno. Oggi, però, ci troviamo in una situazione politica particolare in cui, se da una parte l’idea dei due stati va esaurendosi , occorre con- statare realisticamente che non sia- mo ancora pronti per rivendicare l’i- dea di un unico stato.Ma cosa vorrei davvero arrivare a vedere, sarebbe un qualcosa di simile a ciò che era la Comunità Economica Europea 30 anni fa: una confederazione econo- mica. In altre parole: Israele, Palesti- na, Giordania, Siria, Libano a formare un territorio in cui tutti siano liberi A sinistra: un particolare dello «stec- cato» di protezione.
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