Missioni Consolata - Aprile 2010
MC APRILE 2010 19 ti insieme da questa situazione, da questo marasma che si era creato. Era una conversazione fra gente co- mune che non discuteva di soluzio- ni «politiche» come quelle che si po- trebbero prendere a livello governa- tivo: gli israeliani qui, i palestinesi dall’altra parte; meglio una soluzio- ne che contempli uno stato unico, oppure due stati…Niente di tutto ciò. La conversazione partiva dal da- to di fatto che ci fosse un“noi”da te- nere presente, protagonista di tutta la vicenda: «Perché“noi”non possia- mo semplicemente vivere in questo paese?“Noi”, israeliani e palestinesi. Già viviamo tutti nello stesso paese, perché non possiamo convivere tranquillamente?». Questo discorso, fatto da gente comune,mi ha colpi- to profondamente; è stato impor- tante per me ascoltare ciò che la gente mi stava comunicando. Se lo- ro avessero detto: «Noi palestinesi “dobbiamo”vivere con voi israeliani, siamo costretti a farlo,ma non lo vorremmo assolutamente», la situa- zione sarebbe stata radicalmente diversa.Ma quello che si stava inve- ce dicendo è: «Siamo qui tutti insie- me, allora viviamo in pace tutti in- sieme». E, lo diceva la gente comu- ne, che è comunque la maggioranza. Su questa base po- trebbe iniziare un cammino di ri- conciliazione, ma la premessa è, ov- viamente, la possibilità di avere una vera pace. E dal punto di vista di Israele? Non è che la gente di Isreale sia di principio contro la pace; semplice- mente agli israeliani non importa nulla di impegnarsi in un processo di pace. L’insistenza dei governi non è sull’idea di pace,ma su quella di si- curezza, cosa che convince la gente della necessità di continuare l'inva- sione, di costruire il muro, ecc.. Gli israeliani, per dirla molto bru- talmente, possono convivere tran- quillamente con l'occupazione, non trovano una seria motivazione per terminare con essa; non c'è una vera pressione internazionale che possa obbligarci ad agire diversamente, l’economia tira, le condizioni di vita della gente sono tutto sommato fa- MISSIONI CONSOLATA vorevoli, il terrorismo è in calo e ci si sente sicuri, quindi… Il grande problema è che il ritor- nello della nostra classe dirigente, sia di sinistra che di destra, è sempre stato: «Gli “arabi“ (noi non usiamo il termine palestinese, perché non li ri- conosciamo come tali), sono fatti così, sono nemici permanenti, ci o- diano, non cambieranno mai». Uno si rende conto che la cosa è semplicemente ridicola,ma è ciò che la gente comune crede. La gen- te dice: «Noi vorremmo la pace ma gli arabi non lo permetterebbero mai. Abbiamo lasciato Gaza e hanno iniziato a lanciarci dei missili, se ora abbandoniamo anche laWest Bank sarebbe ancora peggio». Anche coloro che non hanno mai partecipato direttamente all'occu- pazione, che non sono mai diventati coloni, sono però convinti che gli «a- rabi» ci vogliano buttare a mare. E se si dà eccessivo credito a questa vi- sione, viene meno la fiducia nel tro- vare una soluzione politica al con- flitto e cresce la tentazione di ap- poggiare i partiti più intransigenti nei confronti dei palestinesi e meno inclini a cercare soluzioni politiche e più favorevoli a quelle militari. È un circolo vizioso dal quale è difficile u- scire. La cosa veramente sorprendente è che pur essendo Israele una so- cietà aperta, il 90% degli israeliani ha approvato l'invasione di Gaza dell’anno scorso. È un dato incredi- bile, testimone di un sentimento as- solutamente trasversale, che va ben al di là della dialettica politica fra destra e sinistra. Un sacco di gente di sinistra ha accettato l’idea che, per la nostra sicurezza, noi dobbia- mo usare la mano dura nei confronti dei palestinesi. Israele non vuole accettare nessu- na responsabilità e preferisce pre- sentarsi come una vittima. È un fe- nomeno che appare chiaro anche solo dalla lettura quotidiana dei giornali; per esempio, si giustifica la costruzione del muro per cercare di evitare che i “terroristi”vengano messi a contatto, si mischino con le loro“vittime”. Se tu sei la vittima non potrai essere considerato responsa- bile e Israele è proprio questo che non accetta: la responsabilità. Chiaramente, per poter continua- re ad essere la vittima ed evitare di assumerti le tue responsabilità è meglio non conoscere, essere lascia- ti nell’ignoranza delle cose. Lascia che ti faccia un esempio. Uno dei miei migliori amici, professore uni- versitario in Israele, definisce il muro "lo steccato". Gli sembra una parola migliore, più elegante. Gli ho detto varie volte: «Dammi 10 minuti che ti faccio fare un giro in macchina e ti faccio vedere questo «steccato di cemento alto 8 metri »,ma lui si è sempre rifiutato, anche perché do- po averlo visto non potrebbe conti- nuare a chiamare tranquillamente «steccato» un muro di quel genere. È una critica severa, ma fatta con amore quella che Jeff Halper (ex docente universitario, urbanista, antropologo e attivista per i diritti umani) rivolge a Israele, il suo paese. Halper è co- fondatore e coordinatore del Comitato israeliano contro la demo- lizione delle case (www.icahd.org ), un’organizzazione israeliana non violenta, di azione diretta, costituita per resistere alla de- molizione da parte di Israele delle case palestinesi nei territori occupati. Nel 2006 ha ricevuto la candidatura al Premio Nobel per la Pace, insieme all’attivista pale- stinese Ghassan Andoni, uno dei fondatori del Movimento di solidarietà internazionale (Ism). Conferenziere e scrittore instan- cabile, Halper gira il mondo per offrire una continua ricontestua- lizzazione del conflitto israelo-pa- lestinese. A sinistra: un palazzo di Gaza di- strutto durante l’operazione «Piombo fuso». Sopra, nel riquadro: Jeff Halper.
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