Missioni Consolata - Gennaio 2010

redazione@rivistamissioniconsolata.it Il dott. José Mario Romé. A nita Queirazza è psicologa e da alcuni anni si met- te alla prova come volontaria in Africa. Dopo un’e- sperienza in Africa dell’Ovest ha accettato una diffici- le missione in Sud Sudan. Attirata da un lavoro al ser- vizio dell’anello più debole: i bambini. Passati alcuni mesi di isolamento ci ha scritto per raccontarci la sua esperienza. La ringraziamo, anche perché attraverso le sue sensazioni ci offre un breve articolo sulla vita quotidiana sudanese. Vita quotidiana in Sudan Cari tutti, non vi nascondo che all’inizio questo paese è stato un vero shock per ragioni legate per lo più al contesto. Non è per niente di facile accesso, i sudanesi hanno bi- sogno di tempo prima di darti fiducia e all’inizio ap- paiono piuttosto ostili e guardinghi. L’atmosfera non è quella festosa tipica di altri paesi africani che ho cono- sciuto e quando decidi di uscire a piedi devi sempre u- sare una certa prudenza. Si respira una enorme insta- bilità e tanto i sudanesi, quanto gli espatriati, vivono questo posto come una soluzione temporanea nella loro vita. Juba è un cantiere a cielo aperto che ospita uomini di affari di tutte le nazionalità che vengono qui esclu- sivamente per fare soldi. Non ho mai frequentato un gruppo di persone così vario: cooperanti, ex soldati o- ra sminatori nelle organizzazioni umanitarie, giornali- sti, militari delle Nazioni Unite, imprenditori, piloti…. Quello che mi disturbava enormemente all’inizio è la quantità di uomini armati e in uniforme che incontri ogni giorno. In un primo momento non riuscivo a sop- portare la vista di tutte quelle armi e quando uscivo di casa, evitavo di guardare tutte le persone che incon- travo lungo il percorso. Il kalashnikov a tracolla è una delle immagini più consuete qui. La situazione a Juba, al di là dell’imprevedibilità tipica di questi posti, resta comunque gestibile. In fondo, basta seguire le istru- zioni nei momenti di tensione, rispettare il coprifuoco, evitare certe zone, cercare di mantenere sempre un profilo basso… La vita quotidiana diventa semplice- mente più pesante per il fatto che devi sempre rispet- tare una serie di consegne: cercare sempre di uscire con qualcuno, comunicare sempre dove vai e a che ora torni, usare le radio, avere i cellulari sempre carichi e accesi, portare sempre con sé tutti i documenti, non frequentare certi locali… Il mio lavoro mi piace tantissimo ed è veramente la ragione che mi motiva a stare qui. L’idea sarà poi di or- ganizzare delle squadre mobili di educatori che lavore- ranno nei mercati e di aprire un centro diurno al fine di seguire tutto il processo di riabilitazione e reintegra- zione dei bimbi. I bambini di strada di Juba che ho in- contrato fino ad ora non hanno niente a che vedere con i «patatoni» che trovavo ai semafori di Ouagadou- gou. Sono degli adolescenti alti il doppio di me, per lo più strafatti già alle 10 del mattino che quando ti ac- cerchiano nei mercati non ti fanno sentire proprio a tuo agio! A Juba non c’è davvero niente da fare: no artigiana- to, no musica, no danza…niente di niente. Qualsiasi e- spressione è stata rasa al suolo. Ho faticato due mesi per trovare un gruppo di musicisti sudanesi doc. Quan- do ho incontrato i membri del gruppo, li ho trovati esa- geratamente eccentrici tanto erano in contrasto con il resto del contesto. I contatti con i sudanesi si riducono alla sfera professionale. Io per ora mi trovo benissimo con tutti i miei collaboratori sudanesi sia quelli del- l’Ong, sia quelli esterni. Trovo che ciascuno di loro ha delle storie incredibili da raccontare riguardo a quello che ha vissuto durante la guerra. Molti sono stati lontani dal Sudan per 20 anni e sono cresciuti nei campi profughi in Uganda, Kenya o Rdc. Non solo, quando sono tor- nati in Sudan a seguito dell’ac- cordo di pace, hanno dovuto sopportare tutte le umiliazioni da parte dei sudanesi che du- rante la guerra sono rimasti in Sudan. Altri, durante la guerra, si sono rifugiati in Congo poi la guerra è scoppiata anche lì e han- no dovuto scappare an- cora. Sono contenta dell’e- sperienza che sto viven- do e per tutto quello che sto imparando an- che se non credo che qui ci si possa stabilire a lungo. Vi abbraccio forte, forte Anita

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