Missioni Consolata - Dicembre 2009

DOSSIER 44 MC DICEMBRE 2009 lità di studente è tranquilla, fre quento l’Università di Lettere e Fi losofia, dormo presso un convitto per universitari e posso quasi con siderarmi un privilegiato. Voglio però denunciare una mancanza del sistema italiano: la totale inca pacità di accogliere persone come noi rifugiati che dovrebbero veder tutelati i loro diritti non solo sulla carta. Mio fratello, ad esempio, vi ve qui in “Casa Bianca” ma per quanto tempo ancora? Quali sa ranno le sue alternative se questa casa verrà fatta sgombrare? Tutti i miei amici che vivono in Italia e non studiano, fanno fatica a met tere insieme il pranzo con la cena». Italia, paese che tollera a mala pena e ancora non concepisce l’accoglienza come integrazione. E su questo, infatti, Belate ha qualcosa da aggiungere: «La co sa che trovo più difficile qui è l’integrazione con gli italiani. Non è facile farsi degli amici. La spe ranza per il mio futuro è di essere accettato per quello che sono, di non esser visto con sospetto, co me un essere “inferiore” o uno “stupido” solo perché arrivo da una cultura differente. Perché ciò accada però deve cambiare la mentalità della paura verso gli stranieri, che è al momento, in Ita lia, è quella che si respira di più». Se Belate parla di integrazione e dipinge con lucidità un panorama dove gli italiani, vittime di un ti more ingiustificato, rendono lon tanissima la speranza di una so cietà multietnica, Sisay Wenden sen, 25 anni, nato in Eritrea e vis suto in Etiopia, sembra aver raggiunto il tetto massimo della pazienza e ha ormai uno sguardo cinico e deluso verso la sua intera esistenza. «Mi dispiace tanto per questa Italia che era il mio sogno e da cui adesso non vedo l’ora di scappare. Un paese che potrebbe essere migliore, ma che si scontra con troppi cavilli, controsensi e dif ficoltà pratiche. Da quattro anni vi vo qui, ho superato anche l’esperienza drammatica del car cere libico, ma adesso la speranza iniziale di potermi costruire un fu turomigliore è diventata un’utopia e io ho perso ogni entusiasmo di cambiare, ogni motivazione. Ho una moglie e una figlia in Svizzera. Vorrei raggiungerle ma non posso perché ho ricevuto in Italia lo sta tus di rifugiato. Anche questa è una grossa limitazione. Esser con dannato a star lontano dallamia fa miglia, in una terra che mi accoglie formalmente, ma che in verità non può e non vuole accogliermi». T orna a più riprese e da più opi nioni l’idea che il Bel Paese in dossi una maschera ipocrita. Contravvenire ai trattati istituzionali sul diritto d’asilo non si può, si può peròfar fintadi accettarli epoi voltarsi dall’altra parte. a Settimo e aspettano anche loro di sapere cosa gli riserverà il futu ro, se potranno entrare in qualche progetto, quando e in che moda lità. Quello su cui entrambi con cordano è l’impossibilità di rima nere troppo tempo in questa spe cie di limbo, in cui continuano a non sentirsi liberi ma «marionette nelle mani di più burattinai». E ntriamo nella «Casa Bianca», uno stabile adiacente all’ex Cli nica, costantemente pattuglia to dalla polizia. La luce non c’è e saliamo la scala al buio. Arriviamo in un appartamento all’ultimo pia no; l’atmosfera è tranquilla, due ra gazzi stanno giocando a carte e un terzo prepara il tè. Ci salutano sorridenti, l’atmo sfera è cordiale. Mi siedo sul diva no e inizio a chiacchierare con un ragazzo dal portamento elegante che con sottile timidezza e un buon italiano ci racconta: «Mi chia mo Belate ( nome di fantasia, ndr ), ho 26 anni e vengo dall’Etiopia. Nel mio Paese studiavo sociologia ma la situazione politica era di ventata impossibile, soprattutto per me che facevo parte del parti to politico “ Oromo liberation front ”. Il mio viaggio verso l’Italia è sta to lungo; per un anno e 7 mesi ho lavorato in Libia e per riuscire a ve nire qui ho pagato circa 1.200 $. Adesso la mia vita in Italia in qua

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