Missioni Consolata - Settembre 2009

16 MC SETTEMBRE 2009 AUSCHWITZ H o conosciuto Hans. Il nome è di fantasia, per mantenere l’a- nonimato di chi mi ha aiutata a ottenere permessi per entrare nei campi e rimanerci giornate intere per il mio reportage. È venuto a cer- carmi in albergo a Cracovia, colpito dalle mie richieste; non dimenti- cheròmai la sua faccia, quando so- no scesa nella hall tendendogli la mano. «Mi aspettavo una di quelle giornaliste anziane, austere per una richiesta così stravagante, invece lei...potrebbe essere mia nipote... quanti anni ha? Ma lei è pazza! Co- me le è venuto inmente di fare un reportage del genere? È impossibile fare quello che lei mi ha chiesto... a meno che... sia una turista sempli- ce... Nessuno è mai riuscito a soprav- vivere per più di quattro ore nei campi!» mi ha tuonato nelle orec- chie. «Allora adesso ce n’è una» gli ho risposto io. Davanti a un paio di bicchieri di unmeraviglioso rosso polacco,mi ha raccontato il dolore intrinseco e genetico degli ebrei e dei polacchi ogni qualvolta si neghi l’olocausto. Lo rassicuro raccontandogli le ore trascorse a Budapest con sopravvis- suti. Ho ascoltato storie drammati- che e storie di amore straordinario, ma non posso realmente raccontar- le se nonmi immergo nella loro sto- ria e nel loro dolore.Devo provare e gli prometto che resisterò.Due oc- chi grigi mi analizzano come a dire: questa non è normale! Il giorno dopo vado a ritirare i miei «visti» e un anziano nonno che mi farà da guida e guardia del corpo, nel caso che,mi fa notare Hans, do- vessi svenire, come spesso accade. P elle.Un odore acre di pelle... stampato per sempre nel na- so. Mi sento osservata da deci- ne e decine di occhi. Sguardi finiti che mi avvolgono a destra e sinistra nel corridoio che percorro. Sono le foto che facevano ai deportati.Gran- di foto in bianco e nero, nitidissime. Immediatamente penso al fotografo che le ha fatte.Doveva essere molto bravo.Una messa a fuoco disarman- te. Ma sapeva che stava fotografan- do dei cadaveri vivi? Cerco di imme- desimarmi nelle sue emozioni, sen- sazioni... è difficile. Ho scelto di immergermi fisica- mente e psicologicamente nei cam- pi di Auschwitz e Birkenau.Quando dico alla mia guida cosa ho inmente di fare mi guarda perplessa. E solo dopo una scarica di domande deci- de di accompagnarmi. Per tre giorni interi mi lascerò volontariamente at- traversare da quel terrore, dalla di- sperazione stanca dei deportati, la lunga attesa della morte.Morte co- me salvezza.Morte come libertà. Quando arrivo davanti al cancello di Auschwitz la prima cosa che noto è il silenzio di un curatissimo prato inglese. Flotte di turisti discutono, parlano e si allineano con la loro gui- da, interrogandosi sul perché c’è una fotografa quando è severamen- te vietato fotografare. Non sarà semplice immergermi intenzionalmente nei campi, dap- pertuttomi spuntano fuori cappelli- ni di curiosi. Li lascio andare avanti e inizio dagli ultimi blocchi. La mia guida, un ex-deportato i cui occhi ancora si bagnano quandomi rac- conta di quegli anni,mi segue in o- gni singolo scatto. Iniziamo dai sot- terranei dove venivano torturati gli ebrei.Celle di unmetro e mezzo di larghezza per due di altezza, in cui venivano obbligate a stare in piedi tre, quattro persone per giorni e not- ti intere. Entro in una di queste e mi chiudo dietro la cancellata. È quasi buio, cir- cola poca aria. La fiamma di una candela mi illumina la macchina fo- tografica. Ho difficoltà a vedere l’e- sposizione da usare per la foto.Un senso claustrofobico inizia a farsi strada nel mio corpo. L’odore pun- gente è ancora troppo forte. Sono sola. Zoltan, il mio guardiano,mi os- serva a distanza.Gli ho chiesto io di lasciarmi sola. I muri scrostati mi rac- contano il loro calvario. Richieste di aiuto, nomi, promesse, raccomanda- zioni e ricordi, incisi con le unghie su unmuro freddo.Mi siedo per terra, lasciandomi illuminare il viso da un buco che funge da finestra. E li vedo. Larve nude, terrorizzate, umiliate, prive di dignità umana.Uno è sedu- to dove sono io, gli altri tre in piedi e a turno siedono le loro ossa. Un senso di nausea mi scuote,ma mi obbligo a restare. Sento gli occhi appannarsi dietro l’obiettivo.Devo asciugarli per poi ricominciare a scattare. Se ero una di loro! Se i miei nonni erano loro. Se mio figlio dopo essermi stato strappato dal grembo Nella foto grande, ferrovia del campo di sterminio di Birkenau. Nelle altre foto, dall’alto: entrata al campo di sterminio di Auschwitz; letti dei deportati; foto di deportati; bagni comuni; scarpe e vestiti dei bambini.

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