Missioni Consolata - Maggio 2009
MC MAGGIO 2009 55 - segno della luce (9,1-41): cieco nato (cammino della fede); - segno del «pastore bello» (10,1-21): attrazione di Dio (metodo di Dio); - segno della vita (11,1-44): risurrezione di Lazzaro (anticipo della morte di Gesù); - segno dell’olio (12,1-11): unzione a Betània (anticipo della se- poltura). Compito del vangelo è farci incontrare l’uomo Gesù per farcelo conoscere come Figlio di Dio e aiutarci a scoprir- lo come Dio redentore, attraverso i «segni» che egli com- pie nella sua vita e che ci offre come indizi: per scoprire questi indizi, è necessaria la fede. È interessante notare come la parola «segno» solo nel vangelo di Giovanni ri- corre 17 volte (Gv 2,11.18.23; 3.2; 4,48.54; 6,2. 14.26.30; 7,31; 9,16;10,41 11,47; 12,18.37; 20,30) e 7 volte nell’Apo- calisse (Ap 12,1.3; 13,13.14; 15,1; 16,14; 19,20), mentre non si trova nelle lettere, per un totale complessivo nell’o- pera giovannea di 24 volte che è una percentuale suffi- ciente a farci capire l’importanza che l’autore vi annette. b) Il libro dell’ora della gloria La seconda parte è detta «l ibro del l ’ora» o «l ibro della gloria», perché in Giovanni la «gloria» di Gesù si manifesta nell’«ora della morte». Attorno alla parola «ora», l’autore tesse tutto un reticolato teologico di straordina- ria intensità. La parola ricorre in tutto il vangelo 19 volte, di cui 9 nella prima parte e 10 nella seconda, stabilendo così un equilibrio distributivo perfetto in tutto il vangelo. Ciò significa che la parola «ora» tesse la trama del testo. Non si può capire il vangelo di Giovanni se non si com- prende il significato di questa piccola parola «ora», che non indica un tempo, ma l’evento della salvezza che stra- volge la logica e capovolge le priorità. Il racconto delle nozze di Cana riporta l’espressione chiave: «Donna, ... non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4), che idealmente e realmente si ricollega con la pre- ghiera finale di Gesù: «Padre, è venuta l’ora» (Gv 17,1). Il racconto di Cana apre e proietta lo sguardo del lettore sulla fine, passando dall’ ora ancora assente all’ ora final- mente giunta : l’ora della morte che coincide con l’ora della glorificazione del Figlio di Dio: «Padre, è venuta l’o- ra: glorifica il Figlio tuo perché il Fi- glio glorifichi te» (Gv 17,1). Paternità e figliolanza s’intersecano e si fondo- no nell’unica «gloria» che rispecchia nel Figlio il volto del Padre e nel Pa- dre manifesta il volto del Figlio. I L PESO DELLA « GLORIA » La parola «gloria» non significa ren- dere onore a qualcuno con deferen- za, riconoscendone l’autorità e an- che la vanità esteriore che diventa va- nagloria di individui inconsistenti. In ebraico il termine « Kabòd », tradotto in greco con « Dòxa », indica la natura stessa di Dio. Il termine infatti veniva usato come «Nome alternativo» di Dio. Gli ebrei non pronunciano mai il nome YHWH e, infatti non sappiamo quale ne sia l’esat- ta pronuncia. Ancora oggi nella preghiera e leggendo la Scrittura, ogni volta che un ebreo con gli occhi incontra la parola «YHWH», con le labbra pronuncia un nome al- ternativo, come « Adonai , Signore», « Elion , Onnipotente», « Shem , Nome», « Maghèn , Scudo», « Maqòm , Luogo», « Shekinàh , Dimora-Presenza», oppure « Kabòd , Gloria». Il Targum usa anche il termine aramaico « Memràh , Parola». «Gloria» in ebraico ha attinenza con l’idea di «peso» che indica il «valore» della persona: il riferimento è alla «con- sistenza», perché in Oriente ciò che è pesante ha più va- lore di ciò che è leggero. Un uomo grasso vale più di un magro, perché il suo «essere» è consistente, pesante, cioè solido e stabile. Da questo punto di vista, Dio è l’essere glorioso per eccellenza perché trabocca del peso dell’e- sistenza: ne è anzi il creatore. Dare gloria a qualcuno si- gnifica, quindi, riconoscerne il valore, validità, consi- stenza e importanza. I banchetti dei re orientali sono confezionati prevalen- temente con vivande grasse, espressione della «pesantez- za», cioè dell’importanza, della «gloria» (cf Gb 36,16; Is 26,6). Il racconto delle nozze di Cana termina infatti con una nota del redattore che esprime esattamente tale idea: «Questo, a Cana di Galilea, fu il principio dei segni com- piuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria ( dòxa , kabòd ) e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11). Esegeti e commentatori sono d’accordo nel dare rilie- vo specifico a questa parola pregnante che racchiude in sé la sintesi teologica di tutto il vangelo, che già nel pro- logo si apre con questa parola ripetuta due volte nello stesso versetto (Gv 1,14 per 2 volte) e si chiude con l’an- nuncio della morte di Pietro che deve glorificare il Si- gnore (Gv 21,19). Lo stesso termine si trova a metà esat- ta del vangelo, quando l’evangelista, di fronte alla incre- dulità dei giudei, cita il profeta Isaia «perché vide la sua gloria e parlò di Lui» (Gv 12,41; cf Is 6,1-4). In tal modo la parola «gloria» segna le nozze di Cana, discrimina la fede dall’incredulità e trasforma la morte in testimonianza gloriosa. Ancora una volta troviamo la struttura orientale: inizio e fine per indicare che il ter- mine «gloria» è la chiave di volta di tutto il vangelo: tecnicamente si di- ce che questi due testi all’inizio e al- la fine, formano «una inclusione», quasi un abbraccio che comprende quello che c’è nel mezzo: tutta la vi- ta di Gesù. Se dovessimo sintetizzare il IV vangelo in una parola, sarebbe leci- to presentarlo come vangelo «del- l’ora della gloria». Qual è il conte- nuto, valore, peso dell’«ora» e della «gloria» lo vedremo facendo l’esege- si del racconto di Cana, parola per parola. (continua 4) Aquila, simbolo dell’evangelista Giovanni (miniatura irlandese).
RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=