Missioni Consolata - Maggio 2009

MISSIONI CONSOLATA MC MAGGIO 2009 33 scovo di Montevideo. Inoltre con l’arrivo di schiere di emigranti europei, approdarono in Uruguay, diverse congregazioni religiose maschili e femminili che af- fiancandosi agli ordini «storici» presenti (gesuiti e fran- cescani) diedero il meglio del loro carisma, lasciando un’impronta notevole nella vita del paese, soprattutto nel campo dell’educazione dei giovani. Va detto inol- tre che fin dall’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, precorrendo di molto l’enciclica «Fidei donum» di Pio XII, diversi sacerdoti diocesani, soprattutto ita- liani e spagnoli, arrivarono in Uruguay e iniziarono «an- te litteram» un’originale cooperazione tra le chiese, tra Europa ed America Latina. Questi Fidei donum hanno scritto pagine importanti nel libro delle missioni e del- l’Uruguay. Ma forse la pagina più bella fu quella scrit- ta durante la dittatura militare quando questa chiesa, «piccola», povera di mezzi ma ricca di dignità, divenne la voce di chi non aveva voce, trasformandosi nella co- scienza critica di un’intera nazione vilipesa e calpesta- ta. Le figure carismatiche di mons. Carlos Parteli, arci- vescovo di Montevideo, che negli anni ’70 non indie- treggiò di un millimetro di fronte alla protervia dei mi- litari, e di mons. Marcelo Mendiharat, vescovo di Salto, esiliato per lunghi anni dalla Giunta militare, influen- zarono enormemente la chiesa uruguayana. La loro azione pastorale, unita alla testimonianza cristallina, forse più anonima, di militanti laici, suore, comunità di base e sacerdoti permise di aprire cammini di giustizia e pace che portarono alla ricomposizione ed al recu- pero della vita democratica. A tutt’oggi, la realtà uruguayana, pur essendo segnata da una profonda (ma sana) laicità, guarda con ammira- zione e simpatia a questa «iglesia chica», più che mai sale e lievito della sua storia. Mario Bandera I l 2 novembre del 1993 stroncato da un male incura- bile, concludeva a soli 51anni d'età la sua vita mor- tale don Pierluigi Murgioni, sacerdote Fidei donum della Diocesi di Brescia. Don Pierluigi era arrivato in Uruguay nel 1968 nel contesto della cooperazione tra le chiese che, sotto il poderoso impulso datogli dal Concilio, aveva incre- mentato notevolmente il numero dei sacerdoti dioce- sani italiani impegnati nei vari paesi latinoamericani. In Uruguay, in particolare, approdarono Fidei donum del- le diocesi di Novara, Bergamo, Brescia e Verona. Una perfetta miscela piemontese-lombardo-veneta che, se pur dispersa negli angoli più reconditi del piccolo pae- se del Rio della Plata, si ricompattava periodicamente attraverso degli incontri memorabili, capaci di risolle- vare lo spirito ed il morale ad ogni missionario italiano anche nei momenti più duri, tale era l'amicizia, l'affetto e l'unione reciproca che stava alla base di questo lega- me. Di questi incontri, don Pierluigi era un po' l’anima, purtroppo un amaro destino aveva riservato per lui un’esperienza missionaria del tutto particolare. D urante un’incursione notturna nella sua parroc- chia (compiuta dai militari che avevano preso il potere tramite un golpe in cui avevano sospeso ogni garanzia costituzionale), venne arrestato nel mag- gio del ‘72, con l’accusa di appartenere al «Movimen- to di liberaziorne nazionale tupamaros» e senza nes- suna spiegazione, tradotto ed incarcerato in un luogo sconosciuto. A suo carico non fu mai esibito lo strac- cio di una prova per aver infranto la legge uruguayana, però era tale l’astio dei golpisti nei confronti della chie- sa schierata apertamente e decisamente dalla parte de- gli oppressi, che si volle, attraverso lui, dare un esem- pio a tutti gli altri sacerdoti, al fine di raffreddarne lo slancio evangelico e solidaristico con chi era coinvolto nei cammini di liberazione sociali, civili e politici. Fu torturato sistematicamente con il solo piacere sa- dico di infierire su un ministro del culto cattolico che aveva manifestato solamente carità e solidarietà cri- stiana nei confronti degli appartenenti ai «tupamaros» (cosa ben diversa dal condividere ideali e strategie di lotta), fu privato della possibilità di celebrare l'eucarestia in carcere e gli vennero tolti sia la bibbia come il breviario. Rapato a zero, con la casacca color kaki di tela grezza sulla quale era cucito il numero che era diventato per imposizione un suo secondo nome; venne fatto scendere nel « calabozo » (prigione sotter- ranea) dove, insieme ad altri ragazzi appartenenti alla miglior gioventù uruguayana, passò 5 lunghissimi an- ni della sua vita. Gli cambiarono cella e compagni di- verse volte e sistematicamente, ogni 2-3 mesi. Veniva fatto vestire con abiti civili, facendogli balenare la pos- sibilità che «di lì a poco sarebbe stato spedito in Italia»: una tragica farsa studiata dagli specialisti della Cia, che stavano dietro le quinte dei golpisti uruguayani, per fiaccarne l'animo e lo spirito. Ma don Pierluigi fu forte, resistette ad ogni tortura e condizionamento; i suoi compagni di sventura lo ricordano come colui che so- steneva la speranza di tutti, era un riferimento preciso nella disgrazia collettiva del carcere. Quando fu rilasciato, il 12 ottobre 1978, all'aeropor- to di Montevideo, diversi furono i missionari italiani ve- nuti a salutarlo e a ringraziarlo per la sua incrollabile testimonianza di fede offerta nei lunghi anni di deten- zione. Il lungo abbraccio che ci scambiammo prima che lui salisse sull’aereo resta uno dei ricordi indelebili che tutt’ora mi porto nel cuore. Mario Bandera come chiesa / 2 C DON MURGIONI, «TUPAMARO» PER FORZA Storia di un sacerdote italiano ingiustamente incarcerato (e torturato) per 5 anni dai militari golpisti uruguayani (addestrati dall’onnipresente Cia).

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