Missioni Consolata - Settembre 2008

24 MC SETTEMBRE 2008 tere (cf Gen 3,5); qui il figlio anziano contesta il potere del padre che accusa di non essersi accorto della sua schiavitù accumulata per tutta la vita, credendo di potere comprare la sua dignità di uomo e di figlio che non ha mai avuto. Già prima di Gesù, la tradizione giudaica aveva codificato tutta l’osservanza della Toràh in 613 precetti, di cui 365 ne- gativi, simbolicamente corrispondenti a ogni giorno dell’an- no solare, e 248 positivi, corrispondenti simbolicamente al- la totalità dei «pezzi» che compongono il corpo umano. Il sim- bolismo è chiaro: tutto il tempo (anno) e tutto l’uomo (par- ti del corpo) sono sotto il segno della volontà di Dio che si esprime nell’Alleanza come dimensione d’amore e di affetto. Al tempo di Gesù i farisei pensavano che il popolo non po- tesse salvarsi perché era molto arduo osservare tutti i co- mandamenti, giorno dopo giorno. Per questo Gesù, nel van- gelo di Matteo, scritto per i cristiani provenienti dal giudai- smo, espone la sua interpretazione della Toràh , oltre la tra- dizione, con le famose opposizioni del discorso della monta- gna: «Vi è stato detto... ma io vi dico» (Mt 5,21-22.27-28.31- 32.33-34.38-39.43-44), con cui si schiera dalla parte del popolo degli esclusi dalla salvezza e dalla parte del Dio che la salvezza annuncia proprio agli esclusi. Egli toglie i pesi dal- le spalle delle persone (cf Lc 11,46) e le impegna in un dina- mismo di amore, sintetizzando la Toràh , in un solo «coman- damento»: amare Dio e amare gli altri (Mt 22,36-40). C IÒ CHE NON VOGLIAMO FARE , CIÒ CHE NON DOBBIAMO ESSERE Al v. 30 c’è un cambiamento stilistico, con una frase tem- porale che imprime un’accelerazione al contenuto, come se non vi fosse tempo sufficiente: «Ma quando questo tuo fi- glio che ha mangiato con le prostitute la tua vita è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso». In queste parole, le uniche che il maggiore pronuncia sul fratello minore, sono parole di disprezzo e di morte: « Que- sto tuo figlio». Se nel versetto precedente aveva ripudiato il padre, ora presenta il libello del ripudio anche al fratello che non ha mai amato. Egli è inchiodato nella «solitarietà» di se stesso: non ha altro dio che se stesso, cioè il suo abisso di nullità, che coincide con la cima del suo egoismo. Egli accusa il fratello di impurità legale, perché «ha man- giato con le prostitute», senza rendersi conto che egli è im- puro nel cuore, perché si è sempre limitato a osservare la lettera della Legge, senza mai lasciarsi penetrare e interpel- lare nella coscienza (cf Is 29,13; Mt 15,8). L’espressione «questo tuo figlio» trasuda disprezzo illimi- tato: il ritorno del fratello ha sconvolto il suo piano di restare unico padrone dell’eredità paterna. Egli è consapevole che il minore ha sperperato la «vita del padre», ma non si rende conto che il padre ha preferito essere sperperato pur di sal- varlo da se stesso, riuscendoci e riportandolo a casa. Il maggiore al contrario non tiene conto del valore della vita del padre (in greco: tòn bìon ), perché la colloca in un contesto di un disprezzo assoluto senza appello: la perla della tenerezza del padre è buttata ai porci nel fango della grettezza (cf Mt 7,6). Dal figlio «anziano» noi, uomini e donne della modernità, possiamo, dobbiamo imparare quello che non dobbiamo fa- re, che non vogliamo essere (continua - 22). schiavo, perché forse nel suo inconscio sa che suo padre non lo permetterebbe mai. Al contrario, il fratello «anziano» che non si è mai allonta- nato dalla casa paterna, che non ha mai trasgredito un «co- mandamento» del padre e che nella sua tirchieria ha rispar- miato anche i capretti per le feste con gli amici, accusa il pa- dre della sua inesistenza. Egli, infatti, dichiara apertamente la sua schiavitù come condizione interiore propria: è sempre stato uno schiavo e sempre lo sarà. Non ha sperperato con le prostitute, ma di prostituzione è piena la sua vita appa- rente e impura. La parabola non dice che egli «entra» nella festa degli af- fetti, ma resta in sospeso, come un monito per noi che leg- giamo a distanza di ventuno secoli. Egli somiglia al fariseo che si ritiene a posto per avere adempiuto i comandamenti prescritti e di non mescolarsi con gli impuri e gli ingiusti (Lc 18,11-12) o a quei cristiani che ritengono Dio in debito con loro perché vanno a messa, non si perdono una processio- ne, fanno la carità e non ammazzano. Essi hanno una concezione «quantitativa» della religione, che è solo quella del «dovere». Essi girano sempre con la bi- lancia per misurare il pro e il contro, per valutare di non e- sagerare nel rapporto con Dio, che comunque deve stare dalla loro parte, altrimenti è un «dio» ripudiato. I L LIBELLO DEL RIPUDIO I due versetti (vv. 29-30) che stiamo commentando sve- lano l’abisso del figlio «anziano»: di fatto egli presenta il «li- bello del ripudio» al padre e, tramite il padre, al fratello. Accusando il padre di non avergli mai concesso un ca- pretto per fare festa con gli amici, egli mente (come vedre- mo nella prossima puntata), perché da figlio libero, poteva prendere tutto quello che voleva senza nemmeno chiedere il permesso. Da avaro e schiavo, ha sempre pensato ad accu- mulare, aspettando famelico la morte del padre per potere disporre della «roba» sua che egli ritiene propria. Il minore di fronte al padre che gli corre incontro, si getta ai suoi piedi; il maggiore di fronte al padre che esce per sup- plicarlo, gli sbatte in faccia il suo perbenismo di facciata e il suo odio, facendogli la lista dei suoi diritti e l’elenco delle colpe del padre. «Mai un tuo comando ho trasgredito». È la foto della pre- sunzione narcisistica di chi pensa che il mondo comincia e finisce con lui. Il testo greco parla di « entolê - comanda- mento». La bibbia riserva questo termine all’osservanza dei «comandamenti» della Toràh (Dt 26,13; Gb 23,12), ma an- che agli impegni umani (2Cr 8,15). Il termine così acquista una connotazione «religiosa», ma anche «etica», perché e- sprime la natura della relazione umana: verticale verso Dio e orizzontale verso il prossimo. Dicendo di non avere «mai» tra- sgredito un comandamento, egli asserisce di non avere mai peccato né contro Dio né contro i propri simili, qui suo pa- dre e suo fratello. In questo stesso istante, egli pecca con un peccato in più (cf Lc 18,14). «Mai ho trasgredito un tuo comando» è lo stesso che af- fermare: io sono giusto perché osservo la lettera della Toràh , sono un modello di religiosità e pretendo di avere la mia par- te, quella che mi spetta di diritto (cf Lc 18,14). Nel giardino di Eden, Adam vuole essere «come Dio» per usurparne il po-

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