Missioni Consolata - Settembre 2008

22 MC SETTEMBRE 2008 I L PADRE UMILIATO DUE VOLTE Il padre era andato incontro al figlio minore per acco- glierlo nella sconfinata sua paternità; ora di nuovo, «dopo essere uscito, chiamava/invitava» il figlio anziano (v. 28), dimostrando così che egli non ama un figlio più dell’altro, ma ama ogni figlio con tutto se stesso, partendo non dal- la sua realizzazione di padre, ma dal bisogno personale dei figli. Secondo il costume e la mentalità orientale, il padre che corre scomposto incontro al figlio perde la sua dignità di persona autorevole, perché sono i figli che devono correre verso l’autorità (cf puntata 15 a in MC 2,2008, 22-24). Ora la scena si ripete: mentre il figlio maggiore è ancora fuori, è il padre che esce, umiliandosi a supplicarlo per esse- re parte della gioia e della festa. Per la mentalità orientale, sarebbe stato sufficiente che il padre gli avesse dato un or- dine e lui doveva ubbidire; il figlio stesso dice con convin- zione: «Mai un tuo comando ho trasgredito» (v. 29). L’atteggiamento del maggiore è chiaramente falso, perché la sua adesione al padre è solo formale: se fosse stato un «ve- ro figlio obbediente» come si gloria di essere, non avrebbe mai permesso che suo padre «perdesse la faccia» lasciando la festa e uscendo fuori a supplicarlo. Il testo greco dice di più, aggravando ancora, se mai è pos- sibile, la sua posizione: «Guarda/Ecco, da tanti anni [io] ti sono schiavo/servo ». Quello che noi traduciamo con l’av- verbio «ecco» in principio di frase, in greco è un imperativo (aoristo medio) del verbo «horà ō - guardo/vedo», quasi che volesse dire: «Guarda da te stesso/renditi conto/possibile che tu non veda come…». Da un punto di vista narrativo, questo imperativo con va- lore avverbiale posto ad inizio di frase ha lo scopo di rende- re immediato, contemporaneo quello che segue. In altri ter- mini, il redattore ci avverte che sta accadendo qualcosa di importante e le parole che seguono non sono parole qual- siasi, ma decisive. V IVERE DA SCHIAVO , FINGENDO DI ESSERE FIGLIO Il testo ci fa ascoltare le parole tragiche e tremende del fi- glio anziano che si pone di fronte al padre come se fosse in competizione. L’atteggiamento psicologico del figlio è di sfi- da e di conflitto: egli non ha alcuna considerazione del pa- dre. Il verbo infatti che usa è « douléu ō - io sono schia- vo/servo», che esprime lo stato permanente di schiavitù alle dipendenze di un altro: lo schiavo è proprietà del padrone. Anche i servi spesso hanno dignità, ma quando si diventa servili, per apparire «modelli» agli occhi del padrone di tur- no, non si appare soltanto «schiavi», lo si è veramente. Il verbo « douléu ō - io sono schiavo/servo» è opposto al- l’altro verbo greco « diakoné ō - presto servizio/io servo», da cui deriva il sostantivo « diàkonos - diàcono/servitore»: esso esprime un «servizio libero» e in questo senso è usato per il servizio liturgico . Due sono i riferimenti biblici a cui possiamo collegare l’at- teggiamento del figlio maggiore: nel confronto con tutti e due egli rimane in perdita. Il primo esempio lo ricaviamo dal racconto dell’Esodo, dove Dio libera Israele «dalla schiavitù- doulèia » del faraone (Es 6,6) per condurlo al monte Sinai, dove arriva una massa di schiavi, ma da cui riparte un «po- polo libero» con il tesoro delle «dieci parole» di libertà (Es 19-20). Il secondo esempio è più diretto perché mette a confronto la fatica della «schiavitù» che i protagonisti devo- no subire per realizzare il loro sogno. L’ ESEMPIO DI G IACOBBE Nel libro della Genesi (Gen 29,15-30) si narra che Gia- cobbe «servì- douléu ō » sette anni Làbano per avere in moglie la figlia secondogenita Rachele. Passati i sette anni di servi- zio, la notte di nozze, il padre scambia le figlie e Giacobbe al mattino si trova in moglie la primogenita Lia, che «aveva gli occhi smorti» (v. 17), invece di Rachele, «bella di forme e av- venente di aspetto» (vv. 15-20, qui 17). Se vuole avere Ra- chele, Giacobbe deve «servire altri sette anni» (v. 27): per a- DALLA BIBBIA LE PAROLE DELLA VITA (33) (LC 24,46) a cura di Paolo Farinella biblista Così sta scritto LA PARABOLA DEL « FIGLIOL PRODIGO » (22) GUAI A VOI, CHE APPARITE GIUSTI ALL’ESTERNO, MA DENTRO SIETE PIENI D’INIQUITÀ «Quattordici anni ho lavorato e tu mi avresti mandato a mani vuote» (Gen 31,42) « 29 Ma lui rispose a suo padre: «Guarda/Ecco, da tanti anni (io) ti sono schiavo/servo e mai un tuo comando ho trasgredito, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma quando questo tuo figlio che ha mangiato con le prostitute la tua vita è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso» . ( Mt 23,26 )

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