Missioni Consolata - Luglio/Agosto 2008

MC LUGLIO-AGOSTO 2008 73 Il testo ebraico parla di «ira in se stesso», cioè, un’ira cova- ta e alimentata contro il fratello Abele, i cui sacrifici erano più graditi a Dio. Caino crede di subire una ingiustizia e te- me di essere esautorato dal secondogenito e quindi di per- dere il suo diritto alla primogenitura (ne abbiamo parlato a lungo nella puntata n. 6, sviluppando lo schema «maggio- re/minore» - cf Mc 1 (2007) 24-26 ). L’ira di Caino è contro di Dio che giudica «ingiusto», ma la sua ira si compie nel sangue, perché uccide il fratello mino- re, Abele. L’ira del figlio «anziano» in Luca è contro il padre, perché si oppone radicalmente alla generatività del padre che «fu commosso nelle viscere» di fronte al figlio minore mezzo morto ai suoi piedi (v. 20). Il figlio/fratello maggiore è «irritato», diventa duro come pietra e non sente ragione: di mezzo c’è la sua «roba» che è più importante del resto, compresa la vita del fratello. All’a- more generante del padre corrisponde la durezza assassina del figlio/fratello. G IONA VUOLE INSEGNARE A D IO IL MESTIERE DI D IO Nell’AT c’è una figura che somiglia molto al fratello mag- giore: è il profeta Giona che «arde d’ira» contro Dio (Gn 4,1) perché «s’impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro (ai niniviti) e non lo fece» (Gn 3,10). Giona non capisce il comportamento misericordioso e temporeggia- tore di Dio, che fa di tutto per salvare la città di Ninive e i suoi abitanti, mentre egli vorrebbe lasciarla al suo destino di morte e distruzione. A questo scopo non esita a metter- si contro Dio, anzi ad andarsene «lontano dal Signore» (Gn 1,3 - 2volte), quasi per non essere complice nell’esercizio della giustizia di Dio che è la misericordia. Anche il figlio maggiore, si dissocia dalla misericordia di suo padre, e se ne sta lontano perché «non voleva entrare»: egli non ha nulla da spartire con l’immondo figlio del padre (non dice mai «mio fratello»!), così come Giona non vuole condividere nulla con quei peccatori dei niniviti. L’uno si «di- sgusta di Dio», l’altro «si adira»; l’uno accusa Dio di essere troppo buono; l’altro rifiuta la fraternità, perché non am- mette che la paternità possa capire e accogliere e rigenera- re. Giona preferisce la morte piuttosto che spartire qualco- sa con un Dio pietoso; il figlio maggiore si gonfia d’ira per- ché il fratello non è morto lontano da casa. I L PADRE CONSOLATORE E L ’ EKKLESÌA Il padre invece non si smentisce mai, è sempre se stesso, coerente alla sua paternità/maternità con ciascuno dei due figli e con tutti e due insieme, anche se l’evangelista non di- ce che sia riuscito a farli incontrare e accettare. Era andato incontro al figlio minore tornato dissanguato e ora va an- che incontro al figlio maggiore, che non vuole entrare per tentare di riportarlo alla ragione dei sentimenti e della ve- rità. Il figlio minore era «lontano», il figlio maggiore è «fuo- ri». Né l’uno né l’altro sono «con il padre», che deve fare la spola dall’uno all’altro. Nonostante il figlio maggiore non voglia entrare, nono- stante lo accuserà (v. 29) di essere tirchio, il padre gli va in- contro: «Suo padre perciò, dopo essere uscito, lo chiama- va/invitava» (v. 28). È sempre il padre che fa il primo passo e va incontro ai figli, perché è compito dei padri generare per primi. Quest’uomo rappresenta il Dio di Giona e il Dio di Gesù Cristo, che non guardano il proprio interesse, ma unicamente la salvezza degli altri. Il testo greco dice però qualcosa di più e di più profon- do, perché il padre «dopo essere uscito» non si limita a chia- marlo/pregarlo , ma « para-kàlei autòn ». Il verbo è composto dalla preposizione « parà- », che indica prossimità o vicinan- za , e il verbo « kalè ō » che significa «chiamare». Chiamare in prossimità o accanto (a sé) significa dunque non solo «chia- mare», ma anche «consolare/confortare». Nel NT lo stesso verbo si usa per indicare lo Spirito Santo, il «Paràcle- to/Paraclito» appunto, che giustamente viene tradotto con «Consolatore» e per estensione «Avvocato» (colui che sta accanto all’accusato per consolarlo con la sua parola di di- fesa). Anche il termine «chiesa» deriva dallo stesso verbo: « ek-k- lesìa » ( ek- preposizione d’origine o provenienza). La Chie- sa è «chiamata da... (Dio)» perché sia segno visibile del Paràcleto/Consolatore attraverso la testimonianza della misericordia e tenerezza di Dio, che ama tutti gli uomini con simpatia. È questo il contesto semantico entro il quale dobbiamo vedere l’azione del padre che esce di casa per «chiama- re/pregare» il figlio. Non è una semplice supplica, ma una vera vocazione. Con il suo gesto di andargli incontro, il pa- dre pone di fronte al figlio maggiore la possibilità di rien- trare nell’«ecclesialità», cioè nel circuito profondo della con- solazione e della condivisione con chi è più nel bisogno. In altre parole il padre ancora una volta svela la vocazione del figlio maggiore, che è quella di andare incontro al fratello minore, perché solo così egli può ritrovare la sua dimensio- ne di persona e di figlio di Dio, perché Dio lo chiama a es- sere strumento di consolazione, cioè figlio dello Spirito Santo che convoca tutti i fratelli e le sorelle alla sorgente della fraternità/sororità che è la paternità di Dio. L A FACCIA PERBENISTA DELLA RELIGIONE ATEA Non accettare la paternità di Dio come fondamento del- la propria vita (Adam/Eva), significa non riconoscere la fra- ternità con i propri consanguinei (Caino/Abele), diventare gelosi dei doni altrui (Giuseppe/fratelli: Gen 37,11) e impe- disce la convivenza nella stessa «casa», come gli invitati alle nozze del figlio del re che « non vollero venire» (Mt 22,2-3). Storie di Caino e Abele (fornella di L. Ghiberti, porta del Battistero di Firenze).

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