Missioni Consolata - Luglio/Agosto 2008
MISSIONI CONSOLATA sione è impossibile sconfiggere il malessere. Ma cosa succede quando l’unica esperienza inevitabile della vita av- viene durante la migrazione? Ne parliamo con Javier Gonzáles Diez, dottorando di ricerca in Scienze An- tropologiche presso l’Università de- gli Studi di Torino, studioso di reli- gione e immigrazione, oltre che as- segnatario di differenti borse di studio sul tema tanatologico, sia presso il Centro Piemontese di Studi Africani che presso il Centro inter- culturale della Città di Torino. «Indubbiamente le domande di senso, in questo caso, aumentano di intensità.Oltre a chiedersi il perché della morte, ci si chiede anche per- ché si muore altrove. In un altrove dove diventa ancor più complicato “normalizzare”la situazione funebre. La lacerazione della morte neces- sita infatti di una sorta di spiegazio- ne e questo può accadere solo con gli appositi rituali funebri. L’espe- rienza migratoria richiede un surplus di risposte sia esistenziali che antro- pologiche. La stessa migrazione è di per sé un trauma del quale a volte non si incontrano giustificazioni e trovare la morte in una parentesi si- mile lo è ancor di più». A volte si banalizza pensando che le concezioni funebri degli immigra- ti vengano importate inmisura i- dentica in un contesto di alterità, senza considerare la difficoltà o l’im- possibilità ad attuarle. E, ancor più sovente, non è una questione di cui interessarsi. «La popolazione autoc- tona tende a dar per scontato alcu- ne usanze funebri senza considerare che sono il frutto di un percorso sto- rico e culturale basato sul cristiane- simo. Il migrante deve invece trova- re una soluzione in base alla propria religione, dovendosi dunque adatta- re al contesto in cui vive. Incontran- do pure degli ostacoli che possono essere di tipo legislativo o pratico. I musulmani, ad esempio, per quanto riguarda il primo caso han- no l’esigenza religiosa di essere sep- pelliti entro 24 ore dal decessoma secondo la nostra legislazione oc- corre attendere 2 o 3 giorni.Questo è un chiaro intoppo legislativo. Dal punto di vista pratico un ritua- le fondamentale per accompagnare l’anima durante il trapasso è il lavag- gio del corpo che prevede però uno spazio apposito (negli ospedali ad e- sempio) con una fonte di acqua pu- ra, ossia utilizzata solo per quella e- venienza. Questo è un limite che po- trebbe essere superato da una maggiore sensibilizzazione e dalla buona volontà delle istituzioni, dan- do così il giusto rispetto che merita- no i rituali delle culture“altre”. In tal senso sono in corso progetti pionie- ristici nel Nord Italia ma è prematuro parlarne». Ma limitazioni di vario genere e prepotenti gap culturali non provo- cano nell’ immigrato sensi di colpa a livello religioso e la necessità di do- versi giustificare con sè stessi e con la famiglia rimasta nel paese d’origi- ne? «Se consideriamo che i musul- mani, per religione, dovrebbero es- sere inumati nella sola terra senza bara, è chiaro che siamo davanti a un adattamento forzato.A cui devo- no rispondere legittimando la scelta imposta, come quella della bara, e aggirando per quanto possibile la si- tuazione. Magari scegliendo la bara più sottile e quindi più a contatto con la terra. È un po’ come se la no- stra società guardasse dalla finestra la capacità di adattarsi da parte de- gli immigrati. In questo senso c’è ancora molta strada da fare. Basterebberominime modifiche nelle legislazioni,ma so- prattuttomaggiore informazione, attraverso convegni e dibattiti, per poter ridefinire il concetto di comu- nità multietnica». Il lutto, nel suo stravolgente di- rompere, può dar vita a delle nuove forme di aggregazione? «Sì, a volte sono proprio le difficoltà pratiche le- gate al rimpatrio della salma e alla burocrazia a esso relativa a mettere in comunicazione mondi che nei propri paesi d’origine erano agli an- tipodi. Si creano così nuovi spazi so- ciali, nuove reti comunitarie.Dal do- lore non fuoriesce sempre solo de- pressione e isolamento.Attorno al MC LUGLIO-AGOSTO 2008 29 Ufficio stranieri di Torino, in coda per le impronte digitali. L’interno di una moschea fondata da immigrati a Torino.
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