Missioni Consolata - Luglio/Agosto 2008
18 MC LUGLIO-AGOSTO 2008 ECUADOR attribuito un significato religioso. Il modo di pensare e sentire, le tradi- zioni e i costumi, i divertimenti e le feste erano regolate dalla autorità ecclesiastica. Oggi gli indigeni professano in maggioranza la fede cristiana;molti, però, conservano tracce e lineamen- ti culturali propri. Le loro credenze rivelano idee panteistiche e la mora- le sfugge i rigidi precetti cristiani,ma continua a conformarsi agli antichi precetti: non rubare, nonmentire, non oziare. Solamente con il diffondersi delle idee del liberalismo in Ecuador co- minciò a formarsi una nuova cultura. I vincoli commerciali del paese con altre nazioni e lo sviluppo della bor- ghesia mercantile promossero con- dizioni per il passaggio dalla cultura coloniale a una nuova, piùmoderna e tollerante. I cambiamenti socio-economico e le idee liberali, però, non apportaro- no benefici alle zone rurali.Gli indi- geni continuarono a vivere e lavora- re relegati nelle fattorie dei proprie- tari terrieri, da dove uscivano solo occasionalmente; soprattutto rima- neva negata loro ogni possibilità di esprimere le richieste e far valere il propri diritti. Emarginati dai vantag- gi della vita urbana, esclusi dalla vita politica, disseminati lungo la cordi- gliera andina, si ribellavano all’op- pressione solomediante il reclamo delle terre. In un paese dalle marcate con- trapposizioni sociali come l’Ecuador, la cultura non è omogenea,ma essa include elementi comuni derivati dalla cultura popolare spagnola, ben radicati anche nelle piccole città della provincia. E quanto la cultura popolare spagnola venne ha contat- to con le culture indigene, soprattut- to nella cordigliera, è avvenuta una speci di simbiosi, un nuovo tipo di cultura articolata con elementi di o- rigine distinta.Un esempio sono le feste popolari nelle zone rurali. Da quando l’Ecuador si affermò come repubblica indipendente, nel 1830, lo stato si è sempre mostrato incapace di garantire l’uguaglianza etnica dei suoi abitanti,ma attento solamente a rispondere agli interes- si di una incipiente nazione ispano- ecuadoriana; per cui lo stato non è riuscito, e nemmeno ha cercato, di captare e raccogliere le caratteristi- che e necessità dei popoli indigeni. In questomodo si sanzionò legal- mente l’opposizione che già esiste- va tra la cultura degli oppressori e le culture conquistate e oppresse. LA CULTURA PROAÑO A partire dalla metà del secolo scorso, in Ecuador ha cominciato a farsi strada ed affermarsi una nuova cultura, tenacemente promossa da mons. Proaño, vescovo di Riobamba, diventato subito una figura di con- trasto e di rottura con la cultura do- minante, punto di riferimento a cui gli opposti schieramenti si rivolge- vano con venerazione o di avversio- ne. Ciò che mons. Proaño diceva, in- segnava e promuoveva per gli indi- geni diventava parola sacra, da ricordare e attuare. Quella del vescovo di Riobamba è diventata una forma culturale profondamente radicata e, oggi, nessuno può dialogare con il mon- do indigeno senza tenerne conto, senza avere una conoscenza previa del fattore umano, religioso e cultu- rale identificato con la figura di mons. Proaño. Anche per la chiesa stessa, per il suo approccio pastorale alla varie- gata realtà culturale del paese, in modo particolare al mondo indige- no, nulla fu più come prima. Il «me- todo Proaño» (che molto si arricchì attingendo alla fonte delle grandi Conferenze episcopali di Medellín e Puebla) insegnò alla chiesa a diven- tare comunità di fede incarnata in un contesto particolare come quello rappresentato dal mondo indigeno. «Ascoltare la parola di Dio e met- terla in pratica». Questo imperativo che Proaño fece proprio per sé, ispirò «C redo nei poveri e negli oppressi. Credere nei po- veri e oppressi è credere nei “semi del Verbo’’. Credo nelle loro grandi potenzialità, particolarmente nella capacità di ricevere il messaggio di salvezza, di ca- pirlo, accoglierlo e metterlo in pratica. È vero che i poveri ci evangelizzano: per questo la Conferenza di Puebla parlò del «potenziale evangelizzatore dei poveri’’. Credo nella chiesa dei poveri, perché Cristo si è fatto povero, nacque povero, crebbe in una famiglia povera, scelse i discepoli tra i poveri e fondò la sua chiesa nei poveri. Per tutto questo, allo stesso tempo che fac- cio la mia professione di fede nei poveri, oso prendere le parole vibranti di felicità di Cristo: Io ti benedico, Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai savi e sapienti di questo mondo e le hai rivelate ai piccoli». «T utta la mia vita è stata piena di lotte e conflitti. Penso di essere un uomo intransigente quando si tratta di difendere valori trascendentali non certa- mente speculativi, ma incarnati nell’esistenza umana. Sono stato intransigente nella difesa della verità perché ho sempre voluto che come uomini concreti fossimo dalla parte della verità. Sono stato intransigente nella di- fesa della giustizia perché sempre mi è piaciuto che come uomini praticassimo la giustizia. Quello di cui sono più grato ai miei genitori è l’educazione permanente nella libertà e verso la libertà. Sono stato intransigente nell’amore alla pace che ha come base la giustizia e l’amore; la pace che non è “una cosa che costa poco’’; la pace che si conquista con la lotta per eliminare ogni forma di oppressione e sfruttamento, di ingiustizia e discriminazione. Sono stato intransigente nella difesa dell’amore e dell’amicizia, per- ché ho voluto una grande autenticità nelle relazioni umane». «P er tutta la vita ho lottato per la verità, per la vita, per la libertà, per la giustizia, valori del Regno di Dio. Questa lotta è stata molte volte bruciante. Se in quelle occasioni, ho offeso qualcuno con le mie parole e dichiarazioni, gli chiedo sincera- mente perdono e, a mia volta, perdono di tutto cuore chi mi ha offeso. Sono nato povero, senza amarezza ho provato il sapore della sofferenza e delle incertezze della povertà. Divenuto sacerdote e poi vescovo, ho scelto la povertà e i poveri. Ho amato i poveri, in modo particolare gli indigeni. Come prova che ho amato la po- vertà, consegno il fatto di non aver accumulato beni per mio uso personale». (Da ’autob ograf a: Creo en el hombre y en la comunidad) HA DETTO DI SE STESSO
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