Missioni Consolata - Luglio/Agosto 2008
MISSIONI CONSOLATA MC LUGLIO-AGOSTO 2008 17 terra tocca il cielo: sulle alte monta- gne della cordigliera dove vivono gli amici di « TaitaObispo » (papà vesco- vo), come nella lingua quichua gli si rivolgevano confidenzialmente i «suoi» indigeni. LA CULTURA COLONIALE L’Ecuador è un paese multicultu- rale: inmodo più omeno conflittua- le vi coesistono la cultura meticcia e le culture delle nazioni indigene. La wipala , bandiera dei sette colori, simbolo dell’impero incaico dei «quattro orizzonti» ( Tawantinsuyo ) simbolizzava l’insieme di popoli in- tegrati nello stato Inca, «liquidato» dalla conquista spagnola. Il dominio coloniale provocò il cambiamento delle strutture sociali. La ridistribuzione della popolazione e delle ricchezze a favore dell’appa- rato coloniale causò la fine delle va- rie forme di arte urbana, espresse fi- no a quel momendo in oggetti di lusso per la corte e i templi. Furono distrutte le reti viarie, le irrigazioni e venne sconvolto il sistema tradizio- nale dei seminati. Immense esten- sioni di terra passarono nelle mani degli spagnoli e molte specie di piante e animali che per gli indigeni avevano un carattere sacro, furono fatte scomparire.Anche lo sviluppo delle tecnologie adeguate al medio ambiente ebbero termine.Gli indi- geni si videro obbligati a consumare quello che non producevano e a produrre quello che non consuma- vano. Tuttavia, nonostante la sottomis- sione e lo sfruttamento a cui erano soggetti, gli indigeni continuarono a essere legati alla terra e conservaro- no la coesione comunitaria. Terra e comunità continuano ancora oggi a essere i due baluardi con i quali gli indigeni difendono i propri valori culturali e comportamenti sociali. Nell’epoca coloniale, che si pro- lungò per circa tre secoli, la classe dominante si espresse ideologica- mente attraverso la religione. La chiesa gestì questo campo come patrimonio esclusivo e le gerarchie superiori erano integrate da ele- menti che provenivano dai settori dominanti. Nella vita quotidiana di tutta la so- cietà si impose la rigidità dogmatica e a ogni cosa venne praticamente L eonidas Eduardo Proaño Villalba, nasce il 29 gennaio 1910 a San Antonio di Ibarra, nella provincia di Imbabura, nell’Ecuador settentrio- nale. È il figlio unico di Agustín e Zoila, una coppia di poveri, ma onesti lavo- ratori. La coscienza delle sue umili origini ne ispirerà l’approccio pastorale e il metodo pedagogico. Mons. Proaño, infatti, era solito ricordare continua- mente le sue radici povere, accorgimento che gli permetteva di essere ac- cettato dalle persone a cui si rivolgeva come uno di loro, povero tra i poveri. Nel 1923 entra nel seminario minore della città natale. Vi rimane fino al 1930, quando inizia gli studi di filosofia e teologia presso il seminario mag- giore «San José» della capitale Quito. Gli anni della formazione danno a Proaño il «gusto» per lo studio e l’apprendimento finalizzati all’impegno pa- storale. Al tempo stesso il futuro vescovo matura la scelta evangelica, de- cisa e radicale, per i poveri e inizia a coltivare un profondo senso di disagio per la chiesa ecuadoriana del tempo, che giudica essere chiusa, conserva- trice, ipocrita e troppo attaccata a potere e privilegi. Nel 1936 viene ordinato prete e con il ministero sacerdotale inizia anche un più serio impegno a favore dei più poveri, contadini e indigeni soprattutto, schiacciati da un sistema feudale oppressivo che li riduce a veri e propri servi della gleba. È perciò con una certa sorpresa che il 18 marzo 1954 Proaño viene nominato vescovo della diocesi di Riobamba, nella provincia del Chimborazo. S ono questi anni di fermento per la chiesa universale; gli anni della cele- brazione del Concilio Vaticano II, che rafforzano la visione ecclesiale del giovane vescovo: l’immagine di una chiesa serva e non padrona, po- polo in cammino e non staticamente arroccata sulle sue posizioni e privi- legi, povera tra i poveri e non sodale dei poteri forti del paese. Sono soprattutto gli indigeni, in assoluto la parte più disprezzata della popolazione, a godere dell’attenzione pastorale di mons. Proaño. Alcune iniziative - come la con- cessione di terre di proprietà della diocesi a una cooperativa indigena e l’inizio di una pastorale di insieme che rafforzi il senso di comunità in una società altrimenti divisa in caste e animata da fortissimi pregiudizi razziali - lo rendono famoso e al tempo stesso gli accrescono la fama di prete sco- modo che, insieme all’etichetta di comuni- sta, si porterà dietro per tutto il resto della sua vita. Anche la creazione di Radio Erpe. ( Escuelas radiofónicas populares de Ecuador ) gli attira le ire delle classi «no- bili» e potenti del paese, che scorgono in- tenti rivoluzionari nella volontà di Proaño e dei suoi collaboratori di coscientizzare gli indigeni attraverso programmi di alfabetiz- zazione bilingue ( quichua e spagnolo), vita contadina e approfondimento della pa- rola di Dio alla luce della realtà della gente e dei fatti quotidiani. Gesù Cristo è per lui qualcuno con il quale arriva a stabilire una relazione personale: è il suo confidente e allo stesso tempo la sua forza. Come essere umano vive una ricerca incessante. Non si conforma con niente, non ristagna in quello che conosce, si lancia verso lo sconosciuto, mantiene uno spirito aperto a tutto quello che succede nella chiesa e nel mondo. Lo spirito di ricerca, sempre aperto all’ascolto lo rende umile, lo mette in una situazione di discepolo, prima che di maestro. In alcune occasioni dirà: «Sono un apprendista cri- stiano». L’avventura della ricerca lo anima a leggere con occhi sempre nuovi la parola di Dio, a scoprirne la novità. La fedeltà alla ricerca è per lui fedeltà alla realtà sempre cambiante, sempre interpellante. Questo fino alla sua morte, avvenuta vent’anni fa, il 31 agosto 1988. UNA VITA SPESA PER L’UOMO E LA COMUNITÀ Monsignor Proaño in un affresco che lo raffigura pastore in mezzo alla sua gente.
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