Missioni Consolata - Giugno 2008

MC GIUGNO 2008 69 bini infetti: dai neonati avvolti in parei colorati, addormenta- ti sulla schiena della madre, ai ragazzini più grandi, che veni- vano ad accompagnare uno sciame di fratelli e sorelle. Ripensavo ai malati di malaria visti in Italia: turisti, uomini d’affari, missionari, navigatori, coppie di ritorno dal viaggio di nozze... erano figure ormai lontanissime nella mia mente. Adesso per me il volto della malaria era quello di un bambino o meglio di tanti bambini, dagli occhi scuri e sguardo serio e profondo, dai vestiti impolverati e la pelle madida di sudore per il caldo e la febbre. Non sempre erano sofferenti. Alcuni sembravano stare abbastanza bene, ma eseguito l’esame mi- croscopico della goccia spessa, risultavano anch’essi parassi- tati, magari per la quarta/quinta volta in un anno. Ricordo Espoir, una bambina di sei anni arrivata in ospeda- le con i suoi quattro fratelli; abitavano a Tché-Tché, un villag- gio nella foresta proprio ai limiti della città. I fratelli avevano la febbre; uno, il più piccolo, non voleva più mangiare. Espoir invece stava bene ed era arrabbiata che l’avessero portata lì con gli altri, perché non voleva saltare la scuola e poi non vo- leva che le bucassero il dito per fare l’esame del sangue. Ma la loro madre voleva che tutti venissero controllati per il « palù », come chiamano loro la malaria. Delle cinque gocce spesse, quattro risultarono positive e quella di Espoir era quella con la carica più elevata: venticinque trofozoiti per campo microsco- pico. Il fratello minore, negativo per la malaria, risultò positi- vo alle indagini eseguite per la febbre tifoide. Altri invece arrivavano in condizioni gravi, privi di forze, al- cuni in coma. Ricordo uno dei primi giorni di lavoro: ero rima- sta sola, perché l’altro medico dell’ospedale era andato a lavo- rare due settimane sulla piattaforma dell’Agip, in mare al largo della costa di Pointe Noire. Una giovane madre in lacrime mi porta in braccio suo figlio, un bambino sui 10 anni, privo di conoscenza, con 40° di febbre, gravemente ipoteso, con le mu- cose congiuntivali bianche e vomito incoercibile. Non c’è tem- po per alcun esame; bisogna metterlo subito sotto chinino e farmaci sintomatici, sperando che sia un attacco malarico. Per la prima volta mi sono arrabbiata con gli infermieri, a causa della loro intrinseca flemma africana, che talvolta rag- giunge livelli incredibili e che tanto contrasta con la nostra «frenesia bianca». Anche questo non è facile: trovarsi a lavo- rare con persone di altre culture, soprattutto così diverse, in un continuo confronto e scambio che, per quanto arricchente, in situazioni di stanchezza e di paura come quel giorno, può risultare davvero duro. Comunque alla fine riusciamo a stabi- lizzare Josh, il nostro piccolo paziente. La goccia spessa risul- ta positiva per più di 50 trofozoiti per campo; la glicemia non si può rilevare perché è finito il reattivo; l’emoglobina, calco- lata con un metodo molto approssimativo, risulta di circa sei grammi/decilitro (in Italia noi trasfondiamo sotto gli otto grammi, qui trasfondono sotto quattro). La sera Josh è sveglio e io tiro un respiro di sollievo. P er molti altri la malaria si sovrapponeva a uno stato di malnutrizione grave, infezioni gastrointestinali, anemie congenite come la drepanocitosi, sieropositività Hiv, an- dandone a peggiorare il quadro. Secondo la mia formazione «occidentale» non avrei avuto dubbi: tutti questi bambini avrebbero dovuto essere ricoverati, trattati, monitorati; si sa- rebbero dovute prevenire e curare le complicanze più perico- lose quali anemia severa, ipoglicemia, insufficienza renale. Questo avevo studiato sui libri. Ma qui la malaria è un’altra cosa. È proporre a un padre il ri- covero del figlio e sentire il suo rifiuto per l’impossibilità di pa- gare. È ordinare una sacca di sangue e non vederla infondere perché costa troppo e poi si rischia l’Hiv e Hcv. È prescrivere un farmaco antimalarico e vederne comprare altri, al mercato, al banco vicino a quello della manioca, conservati a quaranta gra- di e forse scaduti. È vedere un’infermiera che tra un turno e l’altro si mette su, da sola, la sua flebo di chinino e, finita quel- la, riprende a lavorare: perdere un giorno di lavoro può voler dire perdere il lavoro. Così l’altro volto della malaria, forse quello più vero, si mo- stra in tutta la sua durezza. E a me adesso non importa più niente del meccanismo d’azione dei farmaci, degli studi com- parativi di efficacia e tollerabilità delle diverse terapie, del vaccino SPf66. Adesso vorrei solo poter pagare il ricovero di Michelle, le sacche di sangue di Josh, i farmaci di Emar, la giornata di lavoro di Augustine. Si perché adesso la malaria non è più un articolo di giornale né un vetrino brulicante di plasmodi, ma è una sala d’aspetto gremita di persone, ognu- na con il suo nome e la sua storia, i suoi problemi ed esigen- ze. Ognuna con un immenso bisogno di essere ascoltata. Ognuna, almeno così credevo, con il diritto di essere curata. Fa parte della nostra cultura, nonostante tutti i suoi limiti: non possiamo accettare che una persona muoia perché non può pagare. Ma qui è così. È come se il costo di una malattia fosse un sintomo e in alcuni casi quel sintomo diventa il fat- tore prognostico determinante, diventa la complicanza più grave. C osì un giorno dopo l’altro trascorrono in un lampo i miei due mesi in Congo. Ormai è giugno e siamo nel pieno del- la stagione secca. Mentre preparo le valigie che, non si capisce perché, ma al ritorno non si riescono mai a chiudere, provo a riordinare dentro di me le immagini, le sensazioni, le esperienze di questo periodo. Ma è ancora troppo presto. Ci vorrà un po’ di tempo per assimilare tutto questo, per dare un ordine e un senso a ogni cosa vista e vissuta, probabilmente molto tempo. Per adesso mi rendo solo conto che porterò a ca- sa molto più di due valigie. Mi viene in mente la dedica che avevo scritto come intro- duzione alla mia tesi; era la citazione di una poesia di Mon- tale e l’avevo scritta perché mi piaceva, ma senza darle un si- gnificato particolare: «... Sotto l’azzurro fitto del cielo qual- che uccello di mare se ne va; né sosta mai perché tutte le im- magini portano scritto: “più in là”». È come se la capissi sol- tanto ora. Tornata in Italia, nel reparto di Malattie infettive dove ho terminato la specializzazione, ho ritrovato i «miei» pazienti, la maggioranza dei quali sono Hiv positivi. Ora più di prima non pos- so fare a meno di porre at- tenzione al prezzo dei far- maci antiretrovirali, ogni volta che ne consegno una scatola. E penso che in Afri- ca questa sarebbe una com- plicanza mortale. Guardo questi malati e provo a im- maginare quale volto avreb- bero gli stessi pazienti lag- giù, nel piccolo ospedale di Pointe Noire. Ma questo è un altro capitolo. C HIARA M ONTALDO Nel suo libro «Sono in Cina» racconta la sua esperienza con i Medici Senza Frontiere a Xiangfan.

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