Missioni Consolata - Aprile 2008
MC APRILE 2008 61 I L VITELLO DELLA GIOIA Il verbo greco che traduce l’ordine del padre di am- mazzare «il vitello, quello grasso» è « th ýō » e significa «ucci- do/immolo/sacrifico/offro in sacrificio» (cf Mt 22,4; At 10,13). In molti testi del NT (Mc 14,12; Lc 22,7 e 1Cor 5- 7) il verbo è usato per il sacrificio dell’agnello pasquale. Usando questo vocabolario «sacrificale» per l’uccisione de «il vitello, quello grasso», è come se Lc ci dicesse che ci troviamo di fronte a un vero e proprio «sacrificio eucari- stico», perché il sacrificio è festa per la gioia ritrovata. Non a caso tutto converge verso il banchetto della festa, che è l’espressione sociale di un evento interiore e spiri- tuale: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, e- ra perduto ed è stato ritrovato». Il banchetto celebra la ri- surrezione del figlio, ma anche quella del padre e quella della casa: tutti risorgono in una casa quando qualcuno si salva dal pericolo e dalla morte. Il banchetto è lo strumento della gioia perché, a tra- durre alla lettera il greco, si deve mettere insieme la con- temporaneità del mangiare con il gioire: le due azioni non possono essere separate perché la festa si esprime mangiando e mangiare è (non sempre) un segno/occa- sione di gioia e intimità. Il verbo principale usato da Lc è « euphràin ō - gioisco/faccio festa», mentre il verbo «man- giare» è usato al participio, che è un tempo secondario ed esprime contemporaneità con il verbo da cui dipende. In tutto il NT è usato 14 volte e sempre nello stesso sen- so di pienezza di soddisfazione , gioia irrefrenabile. A vol- te la gioia vuole essere egoista, ma diventa un peccato a sua volta, come nel caso dell’uomo ricco che invita la sua anima a godere e a divertirsi perché i raccolti sono an- dati molto bene, mentre non sa che non farà in tempo ad assaporare la festa perché quella notte gusterà il fiele del- la morte (cf Lc 12,19-21). Oppure come il ricco epulone che, mentre offre «lauti banchetti», non si accorge che sulla soglia di casa sua giace Lazzaro ammalato e affama- to (Lc 16,19-21). La gioia non può essere mai individua- le, ma per natura deve essere condivisa, perché è conta- giosa e comunitaria; solo la tristezza è narcisistica. Il ric- co che non si fa carico della povertà che sta sulla soglia di casa e delle cause che la provocano, scava «un grande abisso» tra sé e il cielo (Lc 16,26). I L VANGELO DELLA GIOIA In tutte le religioni storiche il rapporto con la divinità è assicurata dalla «comunione» con le offerte sacrificali (cf Dt 27,7). È una esigenza della religionemettere in con- tatto offerente e ricevente, attraverso segni e simboli: il banchetto di comunione è simbolo di intimità condivisa, accetta e partecipata. In un contesto di fede, però, il ban- chetto è secondario, perché è solo strumentale, mentre è determinante la gioia che attraverso il banchetto si e- sprime. L’eucaristia è il banchetto da cui scaturisce la gioia della ecclesialità, come il ruscello dalla sorgente. La ragione del banchetto festoso è il figlio mor- to/risorto, perduto/ritrovato, espressione che troveremo ancora in chiusura del capitolo (v. 32); qui ci limitiamo a sottolineare che il padre non gioisce per sé, ma il motivo della sua gioia è solo il figlio. Come il suo amore fin dall’i- nizio fu e resta un amore senza tornaconto, così la gioia è una gioia gratuita, che consacra il suo amore e grandezza. Il figlio fu al centro del suo dolore e solitudine; ora è il fulcro della sua gioia. Ha dato la vita al figlio, gli ha dato la libertà al prezzo della sua morte nel cuore; lo ha reinte- grato nell’eredità, dignità e condizione di figlio: ora gli da anche la gioia del suo ritorno. Il padre è l’immagine per- fetta del Padre celeste, che ha creato un cielo dove «c’è più gioia per un solo peccatore che si converte che per 99 giu- sti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,4.10). U NA PARABOLA DELLA GIOIA PERFETTA Concludiamo con un aneddoto della vita dei padri del deserto. Due monaci avevano peccato gravemente. Il pa- dre abate impose loro la stessa penitenza: andare fuori dal monastero e fare penitenza; chi avrebbe fatto la penitenza più adeguata sarebbe stato riammesso nella comunità. I due uscirono dal monastero e presero strade diverse. Passò un anno. Un uomo macilento e lacero fece ap- pena in tempo a suonare la campanella del monastero che cadde in terra stremato. I monaci lo raccolsero: è u- no dei due fratelli tornato dalla penitenza. L’abate gli chiese cosa fosse successo ed egli narrò ciò che aveva vissuto: «Dopo un lungo peregrinare, vivendo di elemo- sine giunsi in un bosco dove non passava anima viva. Mi sistemai in una capanna di fortuna e mi inginocchiai da- vanti al Signore, dicendo: “Signore, sono un grande pec- catore, e tu lo sai; per compiere la penitenza comandata dal padre abate, vivrò tutto il tempo a digiuno, man- giando solo ciò che offre il bosco e bevendo l’acqua del vicino ruscello; pregherò e mi flagellerò ogni giorno per riparare le mie colpe”. Ora al termine della mia peniten- za, chiedo di essere ammesso in comunità». L’abate disse ai confratelli presenti: «Questa è grande penitenza. Sia riammesso». Dopo qualche giorno, arrivò anche il secondo e suonò la campanella. Era fresco come una rosa, paffutello, felice e sereno, canticchiava con cuore allegro. Stupore e di- sprezzo nella comunità che lo accoglie. Il padre abate gli chiede: «Figlio mio, disgraziato, cosa hai fatto ancora di peggio? Come mai ti ritrovi qui e in questo stato?». Il monaco raccontò il suo anno di penitenza, dicendo: «Padre abate, dopo lungo pellegrinare sono arrivato in un bosco da dove non passava nessuno; sono entrato in una capanna di fortuna, ho chiuso la porta, mi sono in- ginocchiato e ho pregato: “Signore, sono davanti a te e tu mi conosci più di quanto io conosca me stesso. Tu sai che ho peccato e non meriterei di essere considerato tuo figlio, ma so anche che sei un Dio pietoso e miseri- cordioso, lento all’ira e grande nel perdono. Mi fido e mi affido alla tua parola e accolgo il tuo perdono come la festa più grande della mia esistenza. Per celebrare il tuo perdono e la tua infinita misericordia, trascorrerò tutto il tempo che mi resta a lodarti e ringraziarti, facendo fe- sta e banchettando con tutto ciò che vorrai mandarmi”. Così ho fatto e ora sono qui a chiedere di essere riam- messo nella comunità». L’abate fece suonare le campane, radunò la comunità e disse: «Rallegratevi, fratelli! Oggi si è compiuto per noi un miracolo: questa non è solo grande, ma vera penitenza, perché c’è più gioia in cielo per un peccatore che si con- verte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. La vera penitenza è la gioia del perdono». Per suggellare il ritorno dei due fratelli diede ordine di fa- re un banchetto come si usa a pasqua. ( continua 18) www.missioniconsolataonlus.it Ascoltabile su:
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