Missioni Consolata - Aprile 2008
DOSSIER 44 MC APRILE 2008 all’esterno: la «malattia come ri- sorsa». Da cui la simulazione di malattia, la scarsa aderenza ai consigli medici in modo da peg- giorare il corteo di sintomi ed ot- tenere l’ambita «incompatibilità» con il regime detentivo ovvero benefici di legge ottenuti quando l’infermità non possa essere ade- guatamente curata oltre le sbarre. ETNO-MEDICINA ED ETNO-PSICHIATRIA Il medico impertinente di cui sopra ha sempre presente che gli strumenti diagnostici, progno- stici e terapeutici di esclusiva de- rivazione biologica o psicologica sono solo funzionalmente ade- guati se si ignora la natura cultu- rale dei problemi dei soggetti, siano essi individui singoli o gruppi etnici in quanto la nostra crescita, malattia, salute, mora- lità, devianza sono sempre con- notate culturalmente e fanno parte di un sistema sociale den- tro il quale l’individuo deve es- sere considerato. Questo si può descrivere con la differenza che corre tra il signifi- cato dei termini «disease» e «ill- ness» nella letteratura anglosas- sone: il primo indica la malattia secondo la conoscenza medica, mentre con illness si intende l’in- sieme di sensazioni, emozioni, pensieri e comportamenti corre- lati, propri della percezione sog- gettiva dell’essere ammalato del paziente. Nella medicina tradi- zionale occidentale l’attenzione è tutta concentrata sulla disease , cosicché la illness del paziente viene generalmente trascurata; così non può essere nella medi- I l medico penitenziario è un me- dico «impertinente», non da intendersi quale insolente, ma come da etimologia cioè «non appartenente». Non appartiene di fatto al ministero della salute, ma a quello della giustizia, da cui il ruolo primario che gli si chiede non è il mantenimento del benessere del recluso ma una attività correlata a ragioni di sicurezza: più sono assicurate cure puntuali ed adeguate intra- murarie minore sarà la necessità di trasferimento nei nosocomi cittadini, evento sempre con- nesso a rischio di evasioni fu- namboliche durante il tragitto o ad atti di violenza. Il penitenziario infatti, appli- cando la teoria di Edwing Goffman (filosofo ed insegnante di sociologia), è una «istituzione totale» che serve a proteggere la società da ciò che si rivela come un pericolo intenzionale nei suoi confronti, nel qual caso il benes- sere delle persone segregate non risulta la finalità immediata dell'i- stituzione che li segrega: i re- clusi sono sottoposti ad un pro- cesso di «spoliazione del sé», se- parati come sono dal loro am- biente originario e da ogni altro elemento costitutivo della loro identità. Anche il rapporto me- dico paziente non è fiduciario, in quanto il paziente detenuto non può scegliere il clinico dell’é- quipe da cui farsi seguire ed anzi se trasferito da una sezione di un padiglione ad un’altra, pur nella stessa sede, dovrà ogni volta instaurare un nuovo rap- porto spesso conflittuale. Anche la patologia più o meno grave e manifesta assurge in questo am- biente un significato sconosciuto I carcerati e la salute In carcere, anche i rapporti tra medico e paziente sono diversi. Il detenuto non può scegliere e d’altra parte egli vede «la malattia come una risorsa», perché potrebbe aiutarlo ad uscire di prigione. Eppure qualcosa si può fare... di Maria Letizia Primo, medico cina penitenziaria. Medico e pa- ziente devono percorrere con- temporaneamente due percorsi paralleli impegnandosi entrambi a negoziare la loro relazione con l’altro all’interno del nuovo spa- zio interculturale, attraverso una esplorazione del loro mondo co- mune, in un cammino di pari di- gnità alla ricerca della salute, col- laborando tra di loro. L’elevata presenza di detenuti stranieri costituisce poi il vasto e complesso campo della etno-me- dicina ed etno-psichiatria con va- lenze sue proprie. Il paziente straniero, infatti, pone il medico penitenziario di fronte ai suoi limiti - anche lin- guistici - se si creano impedi- menti culturali specifici, ma que- sti può superarle traendo indica- zioni sia dalle competenze del paziente, sia dalle proprie «ri- sorse terapeutiche». Gli opera- tori sono come in mezzo a un guado, disposti a riformulare la propria identità professionale, permettendo ai propri parametri di divenire duttili, così da non ri- manere arroccati nel sapere ac- quisito, né di rinunciarvi, ma ca- paci di aprirsi a «nuove prospet- tive», rispecchiandosi in qualche modo nel recluso che li ha messi più in difficoltà. PSICOTICO, TOSSICODIPENDENTE O DEVIANTE? Il pluralismo culturale ed ideo- logico della attuale popolazione reclusa impone strategie nuove: perché in carcere sempre più fre- quentemente finisce oggi una popolazione che si fa fatica a de- finire con vecchie categorie no- sografiche, così com’è difficile LA SALUTE NON È DI CASA
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