Missioni Consolata - Aprile 2008

MISSIONI CONSOLATA MC APRILE 2008 37 si nella presunzione di colpevo- lezza. La rinuncia a trovare e a rinfor- zare ponti di comunicazione e di relazione tra inclusi ed esclusi si riflette anche in carcere fino ad in- teriorizzarsi come disagio esi- stenziale che esplode con reazio- ni psicosomatiche, autolesionisti- che, tentativi di suicidio. Si constata scarsa attenzione e disponibilità da parte di enti pub- blici a programmare iniziative e interventi rivolti alla prevenzione, all’educazione alla legalità, al con- trasto di comportamenti devianti e criminali. Dedicare tempo e risorse alla prevenzione è estremamente uti- le non solo per apprendere dalle esperienze degli altri (detenuto, tossicodipendente, clandestino, vittima di reati, …) ed evitare pos- sibili ed analoghe conseguenze, ma anche perché nei processi di inclusione o integrazione devono esserci persone disponibili a rela- zionarsi, ad accogliere, a pro- muovere la cultura del dialogo e dell’interazione. Il carcere certifica lo stato di svantaggio sociale e di persona svantaggiata quando ormai la per- sona è giunta al capolinea: un in- tervento promosso e pianificato prima sarebbe meno oneroso, più efficace e socialmente più utile. Lo stato e gli enti pubblici loca- li concedono delega ampia ripro- ponendo una concezione carcero- centrica secondo la quale è l’Istituzione penitenziaria che co- nosce e si occupa dei problemi del carcere e, pertanto, ha titolo di programmare e utilizzare gli in- terventi, i contenuti e la metodo- logia più funzionali per il tratta- mento dei detenuti. In realtà non esistono nei processi pedagogici e formativi posizioni di monopo- lio; e, inoltre, la formazione è un processo che dura tutta la vita, la quale è più lunga della parentesi esistenziale vissuta in carcere. Per attivare percorsi di (re)inserimento lavorativo di de- tenuti si valutino contestualmen- te i requisiti giuridici e i requisiti professionali: se si tratta di inse- rimento lavorativo, non si può prescindere dal presupposto che la persona detenuta possegga la competenza professionale, le abi- lità sociali e le motivazioni indivi- duali a svolgere le mansioni lavo- rative richieste. SE IL CARCERE: È UN CONTENITORE Usare il carcere come un conte- nitore nel quale collocare tipolo- gie di persone con bisogni e do- mande diverse significa creare i presupposti per la deriva della giustizia. I reati, i processi, le condanne attirano l’attenzione dei media che da qualche anno dedicano ri- sorse, tempo, mezzi ed impegna- no operatori in modo sconve- niente per istituire processi paral- leli negli studi televisivi anticipando il dibattimento nelle aule dei tri- bunali. In queste messinscene il risul- tato che si ottiene è davvero mor- tificante perché ingenera confu- sione, inquietudine, impossibilità di acquisire conoscenza e di ave- re consapevolezza per riflettere sulle questioni fondamentali che caratterizzano il comportamento- reato. Da alcuni anni si continua a ri- durre il budget per il funziona- mento delle attività collegate al si- stema della giustizia con l’inten- to dichiarato di contenere le spese. Questa tendenza, a conti fatti, diventa, però, più onerosa per i costi umani e sociali conse- guenti ai reati commessi e perché limita le risposte alle pressioni dell’emergenza e non piuttosto ad una seria e ponderata proget- tualità che programmi e pianifichi interventi mirati. ■ Torino, Le Vallette: parte del carcere che ospita aule e luoghi di ritrovo.

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