Missioni Consolata - Aprile 2008
MISSIONI CONSOLATA MC APRILE 2008 29 zione, che cosa significa auspica- re un maggior uso della stessa se non legittimare la funzione mera- mente neutralizzativa della pena, contraddicendo il principio costi- tuzionale (art. 27) dello scopo rie- ducativo della pena? Il carcere dunque come princi- pale risposta alla criminalità. E se questi sono i messaggi che giun- gono dal sistema mediatico-politi- co non ci si può stupire se i nume- ri della carcerazione crescono nuo- vamente. L’indulto aveva riportato la popolazione detenuta ad un li- vello accettabile. Nel luglio 2006 si era raggiunta la cifra record per la storia repubblicana di oltre 61mi- la detenuti, dopo il provvedimen- to clemenziale, alla fine del 2006, tale cifra si era abbassata a circa 39mila. Nel breve volgere di qual- che mese, tuttavia, siamo ritorna- ti a quote di sovraffollamento in- quietanti: nel giugno 2007 siamo risaliti a quasi 44mila ed oggi ab- biamo superato i 49mila, a fronte di una capienza regolamentare di poco superiore alle 43 mila unità . Ma quanto è efficace lo stru- mento carcere per combattere la criminalità? I dati anche rispetto a questo aspetto sono poco confor- tanti. Un carcere socialmente utile dovrebbe «produrre» degli indivi- dui meno inclini a violare la legge. Come scriveva Alexis de Tocque- ville più di 150 anni fa, se non per intima convinzione nel rispetto delle leggi per lo meno per timore Sull’utilità del carcere, peraltro, il di- battito pubblico sembra avere po- chissimi dubbi. È dato per scontato che il carcere sia il principale, se non unico, strumento di lotta alla criminalità. Ad ogni fenomeno che produce allarme sociale, dal cyber- crime ai maltrattamenti degli ani- mali, dal doping nello sport alla vio- lenza negli stadi, la risposta stan- dard attraverso la quale il sistema mediatico-politico sembra poter te- stimoniare la propria attenzione è quella dell’introduzione di nuove fattispecie di reato con relativa ap- pendice di sanzione detentiva. L’ultima vicenda dell’ indulto del 2006 ha evidenziato come la fun- zione che la nostra società implici- tamente richiede alla pena deten- tiva è quella della mera neutraliz- zazione delle persone condannate. Se le carceri tornano a sentire il problema del sovraffollamento, in- fatti, la risposta più ovvia sembra essere quella di costruirne di nuo- ve, ignorando che gli organismi in- ternazionali (ad esempio, il Comi- tato per la prevenzione della tor- tura del Consiglio d’Europa presieduto dall’italiano Mauro Pal- ma) hanno sconsigliato i governi nazionali di adottare questa solu- zione perché in molti paesi le nuo- ve carceri sono state in breve tem- po riempite, riproponendo gli stes- si problemi di sovraffollamento, ma in dimensioni più estese. Inol- tre, considerati gli altissimi tassi di recidiva fatti registrare dalle persone condannate alla deten- «L ei aveva sempre inteso di- re che voleva aiutarmi ad aiutare me stesso, e ciò era quello che mi aspettavo e de- sideravo». «Aiutarmi ad aiutare me stesso», sono le parole che si leg- gono più volte nella storia auto- biografica di Edward Bunker (« Edu- cazione di una canaglia », Einaudi). La «lei» della storia di Bunker si chiama Miss Louise Wallis, una ex diva del cinema hollywoodiano che prende a cuore l’esistenza di un giovane detenuto che si chiede se sia stato lui a dichiarare guerra al- la società o se sia stata quest’ulti- ma a volere la guerra. E, in questa dichiarazione di guerra, il carcere non rappresenta che un campo di battaglia, in cui Bunker esperisce il suo percorso iniziatico di «cana- glia». PERCHÉ IL CARCERE? Nei 250 anni da cui esiste la pri- gione moderna molti studiosi ed operatori sociali si sono interroga- ti su quale sia l’utilità sociale di te- nere rinchiusi degli individui a cau- sa dei loro reati. Ma se dovessimo rispondere alla domanda che il so- ciologo norvegese Thomas Mathie- sen si poneva nel titolo di un suo la- voro di qualche anno fa «Perché il carcere?», forse l’unica risposta che avrebbe qualche chanches di resi- stere alle obiezioni degli abolizio- nisti, è quella che esso dovrebbe aiutare ad essere aiutati coloro che vi entrano per scontare una pena. La necessità di ripensare il carcere e la pena Il 70% dei condannati torna a commettere reati (la recidiva, che porta al fenomeno detto della «porta girevole») entro 5 anni dalla conclusione della detenzione. Le misure alternative, pur in crescita, vengono guardate con sospetto dall’opinione pubblica. Mentre tra i carcerati è altissimo il tasso di suicidio. Da qualunque lato lo si guardi, così com’è il sistema non funziona. di Claudio Sarzotti, professore universitario PER NEUTRALIZZARE O PER RIEDUCARE ?
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