Missioni Consolata - Febbraio 2008
perdono subordinato alla contrizione. Un cas o evidente di uso strumentale della scrittura perché è contro la chia- rezza del testo lucano che antepone i l perdono gratuito del padre alla disponibilità del figlio. L'evangelista sottolinea che i l figlio prima di partire si era rivolto al padre per prendere quello che non gli ap- parteneva: «Il più giovane dei due disse al padre: Padre, dammi...» (v.12), ora invece sottolinea che non è i l «più giovane» che parla, ma soltanto «il figlio»: «Il figlio gli (al padre) disse: padre, ho peccato...» (v.21). La stess a invo- cazione ha un suono diverso, perché pronunciata in cir- costanz e diverse con atteggiamenti diversi e cuore diver- so. Là il padre era un ostacolo da fare fuor,i qui è il padre come rifugio e misura della colpa. I l figlio usa il termine proprio del rapporto con Dio: «Ho peccato!». La sua col- pa non è morale, ma relazionale. Non ha peccat o perché ha dissipato, perché è stato dissoluto, perché si è divert-i to - queste restano azioni ignobiil e moralmente condan- nabili -, ma qui il suo peccat o consiste nel non avere co- nosciuto i l padre e nell'avere interrotto la relazione pa- dre-figlio e figlio-padre. OLTRE L'INTEGRITÀ, LA TOTALITÀ Del «peccato» abbiamo spess o una concezione mate- rialista: misuriamo le volte, quantità e peso. La preoccu- pazione maggiore di un confessor e era (o forse lo è an- cora oggi?) salvaguardare l'integrità della confessione e quindi determinare le circostanze per definire l'entità dei peccati, lasciando spess o nel penitente i l dubbio di una curiosità morbosa fuori luogo. Il peccat o non è «una co- sa», ma la relazione spezzata con Dio e con i fratell.iNon a cas o Gesù ha ridotto tutta la toràh a un solo comanda- mento con un duplice esito: l'amore incondizionato di Dio che si manifesta e si vive nell'amore senza confini per il fratello (cf Mt 22,4 0 e 18,22) . Peccar e non è cos a faci- le e per riuscirvi bisogna mettervi molto impegno, perché esso è il rifiuto di Gesù Cristo come criterio di vita: il suo modo di pensare, vivere, rapportarsi, servire, parlare, mo- rire diventano i l nostro stile di vita ed è la fede. I l con- trario è il peccato. Il figlio della parabola tra sé e il padre ha mess o «un paes e lontano» (v.B), cioè un abiss o inval-i cabile che però il padre ha potuto superare perché quel figlio non è mai stato abbandonato, nemmeno quando sperperava la vita del padre. Il figlio è frastornato di fronte a quel padre che avreb- be potuto attendere sulla soglia di casa , mentre invece gli accorcia la fatica del ritorno, andandogli incontro. I l f i- glio è prigioniero ancora della logica del rendiconto e si aspetta che il padre eserciti la sua autorità accogliendo- lo come un estraneo e declassandolo dalla dignità di f i- glio al ruolo di servo. «Padre, ho peccat o contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esse r chiamato tuo figlio» (v. 21). La prima parola che il figlio pronuncia è «pa- dre» senza alcuna connotazione ed è i l segno che sa ciò che ha perso. Al contrario finisce la frase con l'altro ter- mine correlativo «figlio», connotato dalla dichiarazione di indegnità: «Padre, non sono degno d'esser e figlio». PECCATORI PRESUNTUOSI Da un punto di vista giuridico il figlio minore ha perso ogni diritto ed è per questo che si aspetta dal padre un comportamento secondo la legge perché il peccat o con- tro il padre è anche un'invettiva «contro il Cielo». Il figlio ha coscienz a che i l suo peccat o non è solo contro il pa- dre, ma anche contro Dio, cioè è un atto di ribellione to- tale che merita la cancellazione dal libro della vita, cioè la morte. Dopo l'idolatrai del vitello d'oro, a Mosè che si schiera dalla parte del popolo Dio dice: «Io cancellerò dal mio l ibro colui che ha peccat o contro di me» (Es 32,33) . Il figlio meriterebbe la morte, perché «ha colpito e maledetto» i l padre (Es 21,15.17 ) e la maledizione di Dio è senza scampo per chi disonora i l padre (Dt 27,16 ; cf Pr 20,20 ) perché «chi deruba il padre è compagno del- l'assassino» (Pr 28,24) . È questo i l contesto giuridico ed etico del ritorno del figlio ed è all'interno di questo qua- dro di riferimento che risplende ancora più potente la f i- gura del padre sia sotto il profilo legale che religioso. Quando ancora era in «un paes e lontano», solo e im- puro in mezzo ai porci, il figlio si era preparato il discor- so da recitare al padre. Lo ripete per non dimenticarlo: «Padre, ho peccat o contro il Cielo e contro di te; non so- no più degno di esser e chiamato tuo figlio. Trattami co- me uno dei tuoi dipendenti» (Le 15,18) . Quando il padre giunge davanti a lui non gli lascia il tempo di finire il di- scorso che già è stato reintegrato prima ancora che chie- dess e perdono. Fa appena in tempo a dichiarare che non pretende di esser e ancora figlio che il padre gli tappa la bocc a e i l figlio non riesc e a dire che accett a di esser e trattato come un dipendente. Incaponirsi a chiedere perdono o pensare di non potere esser e perdonati può costituire un grave peccat o perché Dio (nella parabola rappresentato dal padre) previene la nostra stess a r i - chiesta ed egli ha già perdonato prima ancora di aver- glielo chiesto. AMARE CON LE DUE TENDENZE Spess o i nostri rapporti con Dio sono improntait a le- galismo: di lui abbiamo una nozione più giuridica che paterna. Dio ci perdona prima ancora di avere chiesto i l perdono e spesso , come qui, non lo chiede nemmeno, anzi lo reputa superfluo. Tante volte abbiamo ripetuto un concetto semplice, ma difficiel da interiorizzare in un contesto di religione legalista: Dio perdona perché è giu- sto o anche: Dio è giusto perché perdona. Che sens o ha la morte di Gesù, se continuiamo a misurare col centi- metro la nostra corrispondenza e la risposta di Dio? A- gendo così noi proiettiamo in Dio i l nostro modo di es- sere e vedere, valutare e giudicare. In una parola, noi at- tribuiamo a Dio la nostra piccineria e grettezza e dimen- tichiamo che Dio è sempre più grande del nostro pecca - to, del nostro cuore, della nostra debolezza, del nostro l -i mite (cf lGv 3,20) . Per questo i rabbini spiegano i l mo- tivo per cui nella parola «cuore» in ebraico «lebab» vi so- no due «b»: nel cuore regnano sempre due tendenze, u- na verso il bene e una verso il male. Il vero credente è co- lui che ama Dio con ambedue le tendenze. Anche quan- do abbiamo coscienz a di fare i l male, noi non possiamo cessar e di amare Dio, perché egli ci ama anche quando lo rinneghiamo. Egli è fedele anch e quando noi siamo infedeli perché i l Dio di Gesù Cristo è «Dio non uomo» (Os 11,9) . Davanti al figlio che rinuncia al suo esser e figlio, ne- gando così al padre la possibilità della paternità, il padre compie tre gesti, altamente simbolici e colmi di signif-i cato attraverso tre oggetti: vestito, anello, calzari (v. 22), di cui tratteremo nel prossimo numero, (continua -16) 32 • MC FEBBRAI O 2008
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