Missioni Consolata - Febbraio 2008
ECUADOR I l racconto di Gesù che predica nella sinagoga di Nazaret, secon- do la versione che ce ne dà l’evan- gelista Matteo, illustra lo stupore manifestato dalla gente per lo stile del discorso del messia. La gente, in- fatti, rimaneva meravigliata e diceva: «Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli?... E si scandalizzavano per colpa sua» (Mt 13, 54.57). Non è il contenuto dell’insegna- mento di Gesù ciò che causa scan- dalo, bensì il modo e il metodo di in- segnare, le opzioni e le intenzioni che lasciano intravedere il punto di partenza di un cammino nuovo. Sappiamo bene che il vangelo è una storia emergente, una «contro-sto- ria» vissuta tra gli ultimi del mondo, in cui si scorge perfino la prospetti- va di un avvenire inaudito «dove gli ultimi diventano i primi». Partendo da questo presupposto e volendo testimoniare coerente- mente la nostra fede cristiana abbiamo l’impegno di dar vita a eventi edu- cativi che servano da pre- messa obbli- gata a futuri pedagogici impensati e inauditi. Tale impegno ci sfida quando ci addentriamo nel difficile contesto delle persone disabili all’interno del mondo indigeno andino, contesto nel quale dobbiamo osare doman- de scomode. In altre parole, bisogna chiederci seriamente se dobbiamo accettare a braccia incrociate i vari fallimenti riguardo ai bambini disa- bili nel mondo culturale e sociale delle tradizioni indigene attuali.Co- sa facciamo quando ci troviamo al cospetto di una persona, inmodo particolare di un bambino «specia- le» e portatore di difficoltà personali e comunitarie, lo abbandoniamo? Ci dichiariamo incapaci di soluzione? Il disabile è da considerarsi solamente come soggetto di terapie straordi- narie o può entrare anche lui in una quotidianità educativa vissuta e alla portata degli altri bambini del suo clan, nella sua zona di residenza? Dobbiamo aspetta- re di raggiungere nuovi orizzon- ti attraverso percorsi idonei e già previsti o diventiamo artigiani di una pratica possibile oggi, qui, ades- so? Doppiamente svantaggiati Nella mentalità culturale indigena conta colui che vale e che sa farsi va- lere. Chi, al contrario, ha bisogno di una mano, di un aiuto, di un appog- gio che non sia vincolato a una sca- denza da onorare non ha posto a se- dere neanche nella compassione. Nel mondo indigeno un bambino disabile vale poco, per non dire nul- la; anzi, è un prestito da rimborsare. Nessuno pensa che con il tempo possa rendere.Un tempo le famiglie se ne sbarazzavano immediatamen- te; poi, grazie all’evolversi sociale e all’incontro con il cristianesimo non l’hanno più fatto,ma il disagio nei confronti di unmembro della comu- nità fisicamente o psicologicamente svantaggiato non è diminuito.Alla mamma un figlio disabile costa troppo, è una creatura alla quale bi- sogna dare il minimo indispensabile perché possa vivere,ma essendo un caso «extra-ordinario» è anche fonte di inevitabili spese extra…Questo incide molto sulla vita di tutti i gior- ni, visto tutto il tempo che si deve dedicare all’accompagnamento del bambino con disabilità, a discapito del lavoro e a detrimento dell’ap- poggio che si potrebbe offrire agli Bambini disabili e comunità indigene andine Llaqui causaimanta cushicui causaicama : in lingua quechua significa: «Dalla sofferenza alla felicità». È il cammino sperimentato da alcuni bambini fisicamente o psicologicamente svantaggiati di varie comunità indigene della diocesi di Riobamba, in Ecuador. Grazie alla tenerezza e all’amorevole caparbietà di un missionario di lungo corso. ELOGIO DELLA TENEREZZA Tetso e foto di Giuseppe Ramponi La povertà impedisce a molte famiglie di curare una persona disabile presso strutture specializzate.
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