Missioni Consolata - Gennaio 2008

MISSIONI CONSOLATA MC GENNAIO 2008 29 di una mamma e vuole che provi affetto verso di loro: un papà vio- lentatore ed una mamma che altro non è che lei stessa, colei che il bimbo pensa esser sua nonna. Questo bambino cresce senza la presenza fisica di una famiglia, ma con un’affettività incanalata nella direzione corretta. Sarebbe una tortura esigire a questa donna semplice una forma di perdono che vada al di là di quella che lei, attraverso la sua saggezza e la sua forza interiore, ha già saputo dare. Questa donna dice di non poter perdonare perché confonde il per- dono con la accettazione quando, in questo come in altri casi, il per- dono non significa accettare un male ricevuto, ma costruire la pos- sibilità di vita per lei e per il bam- bino. Fare del perdono un qualcosa di mitologico è molto pericoloso: de- ve essere semplicemente uno stru- mento di vita… un potentissimo strumento di vita. ● dina, parlata da molte popolazioni indigene della Cordigliera, ndr) e un po’ spagnolo mi raccontò la storia sua e del bambino: «Questo bambino mi chiama nonna. Io gli ho detto che il papà e la mamma gli hanno voluto molto bene e ora, dal cielo, non cessano di essere con lui. In realtà, è figlio mio… e di un soldato». Una delle forme di repressione più comune era ed è la violenza ses- suale. A volte, pur di salvare la vi- ta di figli o mariti, le donne sono obbligate a concedersi ai militari. Spesso davano vita a chi veniva poi riconosciuto come «figlio di mili- tari» o «frutto della violenza». «Io non posso perdonare – mi com- mentava la donna – perché mio fi- glio l’hanno ammazzato e a me, in- vece, è rimasto questo bambino». Che significa perdonare in questo caso? Un caso che per altro non è assolutamente eccezionale nella regione di Ayacucho. Provai a inta- volare un dialogo con questa ma- dre-nonna. Dal di fuori è assolutamente sem- plicistico cercare delle spiegazioni ben definite: bisogna trovarsi in una determinata situazione. Biso- gna provare l’angustia e la vergo- gna che accompagnano ogni sguardo, ogni rapporto con il bim- bo… ogni gesto. Tuttavia, è ne- cessario rompere quella sorta di incantesimo malvagio che la situa- zione ha creato e che tiene prigio- nieri tutti i protagonisti di questa storia. Davvero questa donna non ha per- donato, viene da chiedersi? Vuole bene al bambino, lo sta facendo crescere, gli racconta di un papà e categorico, di una emozionalità senza criterio o di un’esperienza religiosa vissuta senza partecipa- zione. Il perdono, al contrario è qualche cosa di molto più com- plesso e completo. Non si devono bruciare le tappe, ma occorre darsi del tempo. Biso- gna misurare le forze per vivere un momento che è al contempo dolo- roso e gratificante, un regalo che sana le ferite lasciando cicatrici a volte profonde ma in grado di of- frire una liberazione che non tron- ca la relazione con il passato. Anche questo è perdono La regione di Ayacucho, in Perù, è quella che più soffrì a causa della violenza di Sendero Luminoso, un movimento rivoluzionariomaoista che seminò terrore e morte tra le comunità contadine delle Ande pe- ruviane. Nel medesimo tempo, è la regione che più soffrì a causa del- la repressione militare, con solda- ti pronti a vedere in ogni abitante della zona, un «senderista» o un informatore della guerriglia. Si calcola che il 60% delle vittime della violenza vissuta in Perù, tra il 1980 e il 2000 è originaria di Aya- cucho. Un giorno, in un momento di inte- grazione che stavamo avendo du- rante un ritiro con la gente di Aya- cucho, ebbi modo di andare a fare una passeggiata con un gruppo di donne: tutte madri, spose e figlie di vittime della guerra. Un bambi- no mi prese per mano e una si- gnora mi accompagnò. Parlando un po’ quechua (lingua franca an- Due anziani nella regione di Ayacucho. In basso: il perdono è un cammino lungo, faticoso e gratificante.

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