Missioni Consolata - Maggio 2007
mo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ri– cevere il titolo di re e poi tornare». L'uomo nobile parte per ritornare, il figlio più giovane parte per allontanarsi , definitivamente. L'uomo nobile va in un paese lontano solo provvisoriamente, il giovane «emigra, per sempre, entrando in una diaspora senza fine. Il viaggio del figlio minore è l'inverso dell'esodo dei suoi padri, i quali uscirono «insieme» dalla condizione di schiavitù per andare verso una terra «lontana» e scono– sciuta, che avrebbe loro garantito la libertà e la dignità di «nazione», anzi, di «nazione santa, popolo di Dio» (Es 19,6; 1Pt2,10). Ora invece assistiamo al viaggio di un so– litario che emigra verso «un paese lontano» per essere , straniero tra stranieri. Egli va in esilio anche da Dio, per– ché allontanandosi dal padre, dalla casa e dalla «comu– nità», egli abbandona anche il «Dio di suo padre» (Es 3,6). Giacobbe quando partì per la terra straniera di Egitto si fermò a Bersabea, ultimo avamposto abitato, prima di ' inoltrarsi nel deserto del Neghev, dove «offrì sacrificio al ' Dio di suo padre Isacco» (Gen 46,1). Andandosene, il fi– ' glio giovane compie un gesto di apostasia: egli rinnega : suo padre e il Diodi suo padre, il suo fondamento e il suo principio. In una parola rinnega se stesso. Lespressione «paese lontano» è quasi una formula per indicare una terra pagana abitata da stranieri (Dt 29,21), • cioè tutto ciò che è opposto alla «terra santa» abitata da Dio. Da questa «santità» della terra si allontana il giova– ' ne figlio, che così non si mette in viaggio verso una mè– ta, ma s'incammina verso l'esilio. Il suo è un cammino dalla «santità» all'impurità. Viene alla mente la figura femminile di Rut che, pur es– sendo pagana, si comporta in modo opposto al «figlio più giovane» che è un giudeo osservante. La nuora di Noemi, , invitata dalla suocera a ritornare al suo paese, nella «ca– ! sa di sua madre• (Rut 1,8) cioè «in terra lontana», si ri– fiuta e sceglie la dimora di Noemi come sua dimora, il ' popolo di Noemi come suo popolo e il Dio di Noemi co– me suo Dio (Rut 1,16). Nella parabola di Le, invece, un , figlio d'Israele rifiuta ilpadre, ilpaese e la patria «per un : paese lontano». A differenza dei suoi antenati, a cui in «terra straniera» gli si attaccava la lingua al palato per l'impossibilità di cantare i canti del Signore (Sai 137/ 136,4-6) per non renderli impuri, questo figlio che rinnega la paternità aspira all'impudicizia del paese lon– tano e alla indipendenza da ogni dovere, perdendo così ogni diritto. «E là disperse la sua natura vivendo (uomo) senza salvezza» Fa pensare che questo giovane figlio dissolve e consu– ma non se stesso, ma la parte di vita del padre, che egli ha ' preteso come parte spettante della sua eredità. Dilapida la vita di suo padre, che si era portato dietro come mezzo : per acquisire la sua libertà. l:autore della parabola usa il verbo «dia-skòrpiz?» che in italiano è tradotto con «io , sperpero». Alla lettera potremmo tradurre con «fece scor– ' pacciate», cioè si abbuffò, oppure «disperse» tutto ciò che era e che aveva, cioè la vita di suo padre, cioè la sua na- 24 ■ MC MAGGIO 2007 tura. Egli può permettersi di essere dissoluto perché non si gioca del suo dal momento che nulla possiede, ma del– la vita del padre che gli è stata regalata con abbondanza e che ora dilapida e sperpera senza criterio, da «dissolu– to». Il testo greco è pregnante e tagliente, perché usa un av– verbio tragico e definitivo: «asòt?s» è un avverbio che de– riva dall'aggettivo «à-s?stos» che è composto dalla vocale privativa «a», che significa «senza», e dal termine «sòstos» che a sua volta proviene dal verbo «sòz?» che significa «io salvo». Si può quindi tradurre l'avverbio con «senza spe– ranza di salvezza», oppure «senza salvezza». Noi abbiamo tradotto: «Vivendo da (uomo) senza speranza di salvezza». La dissolutezza non è solo un comportamento immora– le,come dirà il fratello maggiore al v. 30, dove accusa il «fi– glio di suo padre» di avere divorato tutto con le prostitu– te, ma è un atteggiamento interiore, un modo di acco– starsi e vedere la vita, una scelta consapevole di vita: il dis– soluto è colui che non ha una prospettiva spirituale, ma è rivolto esclusivamente alle cose materiali, che diventano il suo unico orizzonte immediato e finale. Il dissoluto «si dissolve» lentamente, a mano a mano che si consuma insieme alle cose che usa e che consuma: non significa necessariamente «scostumato•, come forse si po– trebbe pensare, ma letteralmente è uno «che si scioglie due volte», perché è un antropofago di se stesso nello stes– so istante in cui sbrana le cose che sta usando: si consu– ma consumando. Non è libero chi è riempito di cose con cui ha coperto la propria anima, che diventa sorda e dissoluta, perché già seppellita nel vacuo e nell'effimero. La schiavitù più gran– de e irrimediabile è quella di colui che perde anche la speranza di essere salvato, perché vede la sua vita rin– chiusa e ripiegata su se stesso, senza alcun riferimento a– gli altri che sono sempre, sul piano affettivo e di fede, la parte migliore di sé. D'altra parte se il figlio giovane lascia suo padre e il suo popolo e il suo Dio, avendo raggiunto la mèta della sua vi– ta,che è «un paese lontano», che altro può fare se nonper– dere la speranza? È la fine totale, perché tutto sarà per– donato, ma non il peccato contro lo Spirito Santo, cioè il peccato di disperazione, la morte della speranza (Le 12,10). Il figlio giovane somiglia ad Adam, che «pretende• la conoscenza del bene e del male del «Padre», che egli vuole spodestare per sostituirvisi. Volendo diventare «co– meDio», Adam edEva di fatto intendono uccidere Dio per sostituirlo; ne esigono la morte, lusingati dal potere di es– sere affrancati dalla libertà che avevano di mangiare «tut– ti gli alberi del giardino»; ma vogliono di più, vogliono an– cora, vogliono «tutto» (Gen 3,1-7). Si ritrovano alla fine «nudi», «scacciati dal giardino di Eden», stranieri in mez– zo al deserto, te rra lontana e di nessuno (Gen 3,23-24). Come i suoi progenitori, anche il figlio della parabola lucana si scaccia da sé dall'Eden, alla ricerca di una li– bertà che nemmeno conosce e che non saprà nemmeno gustare, perché estranea alla sua condizione di schiavo del suo bisogno. Ci resta una sola domanda: dove si annidano in noi J'A- dam e il figlio «prodigo»? (continua - 1O)
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