Missioni Consolata - Aprile 2007
redimerlo. Questo figlio non può perdersi e noi già ora sappiamo che egli si salverà, non perché si convertirà di sua iniziativa, ma solo perché il padre ha posto le pre– messe della sua redenzione. Il figlio porterà con sé la vita del padre che si premu– rerà di custodirlo anche in mezzo ai porci; ma alla fine quella vita del padre che egli sperpererà sarà la forza che lo farà ritornare a casa. Il padre sa che solo lui può salva– re il figlio, ma per salvarlo deve morire: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto»(Gv 12,24). Si è liberi quando si regala la propria libertà Il figlio guarda al suo tornaconto immorale, il padre al contrario svuota se stesso, perché nulla vada perduto del figlio che vuole dannarsi da solo: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quan– to egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno» (Gv 6,39) e per questo non esita fino a lasciarsi uccidere per non condannare quel figlio che deve ad ogni costo esse– re salvato: «Spogliò se stesso» (Fil 2,7). La fede è tutta qui, il cristianesimo non è altro: la li– bertà di regalare la propria libertà. [ espressione violen– ta del figlio più giovane, «dammi la parte che mi spetta», significa: vecchio, togliti di mezzo perché sei di ostacolo alla mia realizzazione e quando ti decidi di morire è an– che troppo tardi. Io sono giovane e ho la vita davanti, ma tu sei vecchio e quindi inutile: dammi la tua vita che ci penso io a sperperarla. Il padre sa quello che fa per questo figlio, a cui rico– nosce il diritto di chiedere la sua vita, perché è lui, il pa– dre, che lo ha chiamato alla vita e non il contrario: «Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25). È lui, il padre, che deve fare testamento per il figlio e non il contrario, che sarebbe innaturale:dividendo la sua vita tra i due figli, il padre sceglie di stare con loro fino in fondo, annullando così la pretesa del figlio di volere vi– vere per conto suo. Dando la sua vita, il Padre mantiene unito non il patrimonio, ma la vita dei due suoi figli e la sopravvivenza della sua famiglia. L'Agàpe è Cristo In greco il verbo «divise - die1len» è al tempo aoristo, che indica un'azione definitiva e irreversibile: divise completamente/del tutto/defini– tivamente, senza possibilità di tornare indietro; il padre non esiste più, perché ora vive nei figli. Questo padre anonimo, perché espressivo del volto di Dio, è l'opposto del ricco stolto che accumula ricchez– ze e ingrandisce i suoi silos come se fosse eterno: «Anima mia, hai a disposizione molti be- ni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divertiti... Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita» (Le 12,19-20). Al contrario, il padre della parabola conside- , ra le sue proprietà nulla, di fronte alla vita del figlio, e non esita ad offrire se stesso gratuitamente, senza chiedere , nulla in cambio: egli è l'immagine incarnata dell'Agàpe di cui Paolo tesse le caratteristiche divine: Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'Agàpe, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia eco– noscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pie– nezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l' Agàpe, non sono nulla. E se anche distribuissi tut– te le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma ' non avessi l'Agàpe, niente mi giova. L'Agàpe è paziente; è benigna l 'Agàpe; non è invidiosa l' Agàpe, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo inte– resse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto co– pre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L' Agàpe non avrà mai fine... Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e l' Agàpe; ma di tutte più grande è l'Agà– pe! (lCor 13,1-8.13). Luca è discepolo di Paolo e sa perfettamente che per Paolo l'Agàpe non è un sentimento o un atteggiamento morale dovuto, quasi un imperativo della coscienza. Lu– ca sa che l'Agàpe in Paolo non è altri che Gesù Cristo, che manifesta il cuore stesso della rivelazione e cioè che «Dio Agàpe è» (I Gv 4,8). Qualsiasimorale, qualsiasi comportamento etico, qual– siasi osservanza di regole o precetti... tutto è vanificato e vale nulla, se non è vissuto e sperimentato e consumato nell'amore a... perdere, nell'amore gratuito che dona se stesso, perché soltanto nel dono si compie e si realizza, come il padre della parabola lucana, come Gesù Cristo da cui Paolo si è «lasciato afferrare» (Fil 3,12): Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi Cristo, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia eco– noscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pie– nezza della fede cosl da trasportare le montagne. ma non avessi Cristo, non sono nulla. Ese anche distribuissi tuttele mie sostanze e dessi il mio corpo peresserbruciato, ma non avessi Cristo, niente migiova. Cristo è paziente, è be- ' nigno Cristo; non è invidioso Cristo, non si van– ta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca ilsuointeresse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'in– giustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Cristo non avrà mai fine... Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e , Cristo; ma di tutte più grande è Cristo! Non ci resta che tacere, adora– re e amare, accogliendo anche noi l'invito di Gesù al dottore del- , la legge: «Va' e fa anche tu lo stes- so» (Le 10,37). (continua - 9) MC APRILE 2007 ■ 65
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